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46i ,9 tro rba sedotto;e Io ha egregiamente imitato.,, Per quanto io abbia cerco nella prima tragedia, il Filippo, reputata la più bella, io non bo potuto discernere in che abbia TAl* fieri imitato Dante. Abbiam veduto, dei primi nove versi da noi citati del XVII del Purgatorio, che leggiadra simili*tudine, che bella immagine, tolta dalla natura, forma il gran Poeta con parole semplicissime, anzi famigliari, le quali ne giova ancor ripetere: ricordarsi^ lettor^ maij alpe^ co^ glierCf nebbia f scadere ^ altrimenti^ pelle ^talpe^ come^ quan^ do^ vapori^ umidii spessi^ diradar ^ cominciare^ spera^ sole^ debilemente, entrare^ essi^fia^ immagine^ leggiera^ giun^* gere, vedere, come^ risieder e^ solej pria, gtó, corcare. Vi sono le voci talpe f spera^ debilemente^ fia^ pria^ corcare, non famigliari solo per T ortografia poetica; ma la bellezza di quei versi non sta in queste parole. Ora, se Timitar Dante deir Alfieri non fu altro che in usar vocaboli che si trovano nella Divina Commedia, io non so chi altri non sapesse fare altrettanto. Ma questo, cioè di imitar le parole e lo stile di Dante, dice il Gasalbigi, non si dovrebbe far^e; egli è di parere che le sue bellezze trasportarle a noi convenga nelV odierno nostro pia cuUoy più fluido linguaggio Adunque in che diavolo ha l’Alfieri imitato il Poeta, il Filosofo? Nutrirsi de^ grandiosi sentimenti di Dante, imitarne le forti immagini^ le nervose espressioni^ soggiuiìge egli, è certo degno di lode. Bene, ottimamente, in quanto al sentimento; e questo è appunto ciò che non fece rAIGeri; perchè queste non sono cose agevolmente imitabili, ma le fornisce l’ingegno. A me occorse già d’avere a recitare il Filippo; e io non sapeva dare a me medesimo ragione del per^ che non mi piacesse lo stile i a tal segno che non ci fa mai