Pagina:Grammatica filosofica della lingua italiana.djvu/470

443 te di marmo, colonne della cui altezza e grossezza non se n’ha forse idea in Roma, questa sublime semplicità è cbiamata povertà da quelli che la comparano con l’interno di San Pietro. Ma tanto voglio che basti a me ad accennare coirne vago sia il definire la bellezza delle cose, a cagione della varietà dei gusti degli uomini, e della disparità di scienza conoscenza. Ora, quanto più astruso sarà il ragionare della bellezza di una lingua, per esser la materia tanto sottile, e richiedersi pili di sapere e d* ingegno a poterne dar giudizio, che d^ogni altra cosa; e perchè ciascuno vede in quella bello o brutto, secondo che l’uso o la natura sua, de« bole o forte, o il quanto e il quale della sua scienza gliela dimostra. Nei vocaboli soprattutto stala bellezza di una lingua; e dal modo laconico o prolisso, dal tono forte o soave, vivace o languido, con cui son toccate le note di questa musica, dipende Usua armonia, che è sua bellezza* Qual è dunque la lingua che meritamente tiene il primato, e che degna sia d’esser chiamata bella? Quella in che scrissero i piti grandi ingegni dell’Italia. E quali furono essi? Dante, il Petrarca, il Boccaccio, e il Maccbiavello. Perchè non il Guicciardini, il Metastasio, TÀlfieri, e il Goldoni? Perchè questi non bau saputo, appunto per inferiorità d’ingegno, toccare con egual arte le note, di cui l’armonia della lingua scritta da quei grandi s* è veduta capace; o per non aver essi fatto uso, qual più qual meno, salvo il Guicciardini lo cui stile è purissimo, pure delle stesse note. Ma, ancora, perchè o in qual modo queste note o vocaboli sono più belli in quelli cbe in questi? Ciò mi accingo io a dimostrare, per quanto mi sarà possìbile, con alcuni esempj.