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parte seconda - capitolo xxxii 57


Salendo la prima scala vidi la sfortunata moglie del Gratarol che mi precedeva, e udii che con una chiassata allegra ella diceva a certi signori co’ quali s’era incontra: — Ho voluto venir a vedere mio marito sulla scena. — Le parole di quella infelice abbandonata spiegarono abbastanza la fama che correva e un’illusione apparecchiata.

Non saprei dire la causa d’una esultanza generale che spirava per il teatro, né perché sino una moglie fosse persuasa di vedere il marito esposto alle pubbliche risa e fosse venuta per vederlo con esultanza.

Posso riflettere soltanto che in un secolo abbandonato alle leggerezze e alle voluttá di Citera, una infinitá di femmine sedotte e piantate, una infinitá di rivali sopraffatti, una infinitá di mariti gelosi e non in tutto filosofi moderni, e delle mogli abbandonate da’ mariti e desolate formano un complesso di spettatori pericoloso in una circostanza com’era quella della commedia: Le droghe d’amore.

Entrai nel mio palchetto, dove il Sacchi che quella sera non recitava, venne a trovarmi.

Giurerei che contro al mio naturale sempre risibile io era la piú conturbata persona che fosse in quel vasto ricinto. Tutti coloro che mi conoscono e m’hanno veduto essere indifferente e ridere tutte le molte sere ch’io esposi al pubblico le nuove sceniche favole mie, sanno che la cagione del turbamento del mio spirito quella sera non era cagionato dal dubbio dell’incontro felice o infelice d’una composizione ch’io m’era ridotto ad abborrire.

Girai coll’occhio il circolo del teatro affollatissimo d’un bulicame e non mai piú per tal modo calcato.

Scòrsi in un palchetto il Gratarol, che fuori di tempo e assai tardi s’era immaginato di venire a far il Socrate con una bellezza muliebre a canto. La mia previsione mi fece tremar per lui.

Alzato il sipario e cominciata la rappresentazione, vidi gli attori recitare l’opera ottimamente secondo la maniera italiana, né posso per giustizia accusare la Ricci che non abbia usata