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parte terza - capitolo viii 245

vidi la di lui prole, ch’io aveva veduta picciolina, divenuta gigantesca.

Non scorse un anno che fu chiesta la di lui figliuola, in vero casalinga, valente e d’indole dolce, per moglie da un giovine d’una famiglia civile, onorata e agiata del Friuli; e il matrimonio fu tosto concluso. Mi si narra ch’ella abbia partorito un maschio in capo all’anno e che sia amata e felice in quella buona famiglia. Discorrendo del figliuolo, che non è senza intelletto, il povero padre suo spese non pochi danari a mantenerlo a Padova agli studi ad apparare ragione, in iscambio di farlo studiare perch’egli apparasse la forza.

Questo giovine dopo aver studiato quattr’anni ragione, essendo in sul punto di fare il grand’acquisto della laurea dottorale, fu dalla forza, ch’egli non aveva studiata, obbligato ad allontanarsi improvvisamente dalla celeberrima universitá di Padova, datrice della corona di lauro.

Quella terribile ondulazione, che dilatandosi va rovesciando colle rivoluzioni presso che tutto il mondo abitato, giunse anche a Padova, e per un ordine della forza tutti gli alunni aspiranti al serto di lauro doverono abbandonare quella cittá e lasciare il lauro a’ rocchi d’anguilla nello schidione ed alla gelatina.

Venezia non restò illesa dall’essere còlta nel cerchio di quella tremenda ondulazione, e qui s’aperse un bello brutto campo a’ filosofi osservatori sui movimenti degli umani cervelli. Il dire «un bello brutto campo» è una contraddizione, ma ne’ tempi in cui siamo di rivoluzione sono classici anche i paradossi.

Un dolce sogno della fisicamente impossibile democrazia organizzata e durevole fece urlare, ridere, ballare e piangere.

Gli ululati de’ sognatori, esprimendo «libertá, eguaglianza e fratellanza», assordarono, e i desti furono alla necessitá di fingere di sognare per poter difendere l’onore, le sostanze e la vita.

I non obbligati ad intendere gli effetti naturali delle scienze seminate ne’ secoli non scorgono che degli arcani e de’ prodigi in ciò che succede e che non intendono.

Nel mezzo a’ miei pensieri scritti e stampati, vestiti col mantello della facezia, e specialmente nel mio poema della Marfisa