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parte terza - capitolo iv 227

d’onestá e di sinceritá, la qual onestá e sinceritá (sia detto tra parentesi) gli cagionarono delle vessazioni, era fornito di tutte le cognizioni che può dare l’arte sua. Mi toccò il polso e m’assicurò che la mia febbre era gagliarda. Aggiunse con la solita medica prudenza che conveniva stare a vedere se la detta febbre potesse essere una semplice effimera.

Era ben altro che effimera. Quella febbre mi colse di nuovo la notte con una ferocia e con una doglia interna nel basso ventre, tanto atroce ed acuta ch’io tenni per fermo d’essere in sulle mosse per seguire i miei parenti ed i miei amici defunti.

Soffersi l’incendio della febbre e i crudi morsi della doglia sino verso al giorno per non disturbare inutilmente il mio servo ne’ sonni suoi, ma desto ch’egli fu, gli comandai di chiamarmi tosto un confessore. Egli non voleva ubbedirmi, e lo feci ubbedire con una voce piú da sgherro che da penitente.

Mentre ch’io mi confessava, giunse il medico che, partito il confessore, entrò dicendomi: — Com’è? che fu?

— Niente — diss’io scherzando. — Parmi d’avere del male a sufficienza per dover confessarmi, e mi sono confessato. Ho adempiuto al debito e alla necessitá d’un cattolico, ed ho levata a lei la pena di studiare una dolce maniera di dirmi ch’io mi confessi, se la mia febbre richiedesse un tal passo.

— E bene — rispos’egli, toccando il mio polso e aggrottando le ciglia, — qui non è da attendere il terzo termine di questa febbre, e conviene opporre una spezieria di china per proccurare di troncare il suo corso, perocché ella è una perniziosa violente.

Non so quante libbre di china abbia ingoiata, e mi ricordo solo che di due in due ore me ne recavano un gran peccherone. La febbre piú non venne, ma ebbi tre mesi d’una convalescenza rabbiosa, ch’io superai colla mia sobrietá e col mio coraggio.

Alcuni di coloro che si dicono spiriti forti, sapendo ch’io aveva chiamato un sacerdote e che aveva voluto fare la mia confessione in quella malattia, decisero sghignazzando ch’io non era filosofo; e il bello è ch’essi speravano che la loro materiale, ridente, viziosa ed empia ignoranza fosse sublime filosofia.