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parte seconda - capitolo xlvii 161


Una femmina genovese, che aveva l’impiego ad un tenue prezzo di stirare la mia poca biancheria, venne a recarmi alcune camicie una mattina in un canestrino. Quella biancheria aveva sopra un bellissimo garofano.

— Di chi è quel garofano? — diss’io. — Egli viene a lei — rispose la genovese — e dalle mani d’una bella ragazza che le sta vicina e ch’Ella ha la crudeltá di non curare.

Quel garofano e la ambasciata, ch’io conobbi da dove partivano, accrebbero in me il pizzicore; e tuttavia risposi all’ambasciatrice ch’ella ringraziasse moltissimo la bella giovine, ma non mancasse di dirle che impiegava i suoi fiori assai male.

La mia testa incominciava a girare e il mio cuore ad ammollirsi.

Riflettendo però tra me che non avrei voluto incontrare un imbarazzo matrimoniale da cui era assolutamente astemio, né pregiudicare al decoro d’una ragazza colla mia pratica, e riflettendo pure alla scarsezza di danaio con cui non avrei potuto soccorrere alia indigenza nella quale sapeva essere quella bellezza, ammorzai in me tutta la simpatia che m’attraeva verso lei. Cominciai a non piú lavarmi le mani sulla finestra per fuggire dal raggio de’ suoi occhi ladroncelli. Inutile ritiratezza e d’effetto peggiore.

Fui chiamato un giorno a visitare quell’amico mio uffiziale, Giovanni Apergi, che m’era stato maestro ne’ militari esercizi e ch’era a letto alquanto attratto e dolente in benemerenza de’ suoi passati amori. Egli era alloggiato sulle mura poco da me distante, nell’albergo d’una donna attempata moglie d’un notaio. V’andai.

La donna attempata cominciò dal motteggiare la mia rusticitá, passando grado grado ad una acerba correzione materna e adducendo che in un giovinotto di sedici in diciassett’anni, com’era io, era una caricatura ridicola la serietá d’un uomo di cinquant’anni, e che particolarmente il far disperare e piangere con delle noncuranze e quasi con de’ disprezzi le ragazze civili e belle, che avevano per me della passione violente, non era saviezza ma inurbanitá e tirannia.