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CAPITOLO XLIV

Ancora delle Droghe d’amore contro la mia aspettazione.

Veritá sulle quali il giudizio de’ lettori è da me lasciato libero.

Il Sacchi ch’era andato quell’anno a piantare la sua uccellagione a Milano, sull’esempio del frutto che gli aveva dato in Venezia la mia commedia: Le droghe d’amore, volle esporla anche nel teatro di quella cittá con la speranza d’una buona ricolta.

Una cattiva commedia ch’era stata a lui fertile in Venezia per le sozze estrinseche cause che ho narrate, non poteva in Milano appagare le sue lusinghe. Comunque sia andata quella commedia esposta nel teatro di Milano, ella fu certamente con mio dolore cagione d’un nuovo pregiudizio al signor Pietro Antonio Gratarol.

Era giunta a Venezia la notizia che il comico Giovanni Vitalba che per suo delirio rappresentava la parte del personaggio in contesa, andando o ritornando di notte dal teatro, s’era incontrato in un sicario il quale gli aveva scagliato con una forza da atleta un ben grosso bottiglione d’inchiostro per difformargli la faccia. Fortuna per quell’infelice che il bottiglione capace a difformarlo non solo, ma sufficientissimo ad accopparlo, lo aveva còlto nel collo, e che difeso dal colletto di molte doppiature andò illeso dalla morte e da un abborribile desiderio non si sapeva di chi.

Il carattere pacifico di quel pover’uomo, ritirato, economo, che faceva il comico per guadagnarsi il pane, che obbediva ciecamente il capocomico, che non aveva nimici da dover temere d’essere accoppato o difformato, suscitò in Venezia de’ discorsi e de’ sospetti unanimi sopra al Gratarol. Io non fui né tra i discorritori né tra i sospettosi, né volli credere giammai il Gratarol capace d’una tale inumana antievangelica nera