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parte seconda - capitolo xxxvii 103


Il Sacchi espose la mia richiesta col viso afflitto; io aggiunsi quanto poteva per sostenerla. Un «oibò» generale di tutti gli astanti e spezialmente del cavaliere ch’io doveva rispettare, m’intruonò il capo. Il patrizio Lini, gran protettore del Sacchi, espose i mali che sarebbero avvenuti. Sostenne la impossibilitá di ciò ch’io chiedeva. Provò che la commedia era de’ tribunali e del pubblico e non piú mia, conchiudendo con queste parole; — Se il Gratarol è un matto per addossarsi ciò che non è e per insistere con tante cavallate, suo danno. La commedia deve essere riprodotta per tutte le ragioni. — Il mio arringo fu vano ed ebbi torto con tutti i voti.

Il Sacchi che mi vedeva fremere e voleva mostrare dal canto suo di aver a cuore le mie premure, forse per non perdere la mia assistenza alla sua mèsse, soggiunse: — Tutto ciò che si potrebbe fare sarebbe il riprodurre la commedia domani a sera in obbedienza de’ tribunali, degli ordini che corrono e per non offendere e disgustar il pubblico a cui è promessa e l’attende, e il cercare poi un ripiego per non riprodurla nell’avvenire.

Un altro «oibò» degli astanti voleva impedire anche questa esibizione, ma io interruppi gli «oibò» e volli prendere in ferma parola il capocomico dell’esibito, non potendo sperare di piú, e mi feci confermare l’impegno.

Gli dissi però ch’io aveva fatti degli altri uffizi de’ quali attendeva risposta, e che se mi riesciva di combinare la sospensione della commedia anche il domani senza di lui pericolo, egli doveva aderire al mio desiderio.

— Io non so vedere come ciò si possa fare — rispose il Sacchi. — Tuttavia sono disposto a servirla entro al possibile.

Sperava qualche cosa nella risposta del patrizio padrone del teatro ed ero impaziente di vederla.

Il patrizio Lini fece una violenza grande per trattenermi a pranzo. Ero troppo affaccendato per proccurare di servire alla premura del Gratarol per non curarmi di pranzare quel giorno.

Volai alla mia abitazione, e trovando il viglietto di risposta del cavaliere Vendramini, l’apersi con aviditá e lessi con rammarico una cerimoniosa ma solenne risoluta negativa.