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parte prima - capitolo xxxiii 191

ciò che ne’ scorsi secoli fu venerato come l’angelo guida di Tobia, e a scagliarsi colla mente famelica e divoratrice nell’abisso degli enti che non esistono, fecero vaneggiare e divenire energumeni un’infinitá d’intelletti attissimi per se medesimi a riuscire valenti con piú sani principi.

Ebbi l’altra debolezza di guardare con qualche risentimento la decadenza e il possesso che prendeva l’ignoranza sulla puritá della nostra favella italiana, ch’io giudicava facoltá principale, anzi pure indispensabile allo scrivere con armonica decenza litterale, a sviluppare con felicitá e a dare i veri lumi e le vere tinte a’ sentimenti nell’opere specialmente di spirito del nostro idioma.

Ebbi la terza debolezza di vedere, con qualche risentimento, estinguersi la varietá dello stile con cui si trattavano per letterario dovere le varie materie sublimi, famigliari e facete, tanto nella prosa quanto ne’ versi, e ridursi ad un solo mostruoso, quando rigonfio, quando goffo stile, tutto ciò che si andava scrivendo e stampando, dal tema piú considerabile sino al tema del viglietto giornaliere all’innamorata.

Non si creda però giammai che il mio risentimento sopra a quelle ch’io giudicava sciagure letterarie del nostro secolo, mi facesse uscire dal mio istinto risibile. Quanto scrissi scherzevolmente e quanto feci uscire dalle stampe in difesa de’ nostri maestri, del colto scrivere e della puritá della nostra favella contro agli audaci corruttori degl’ingegni dell’Italia, fa chiara e legittima fede d’un zelo gioviale e niente riscaldato.

Scevro finalmente affatto del sopraddetto risentimento, devo confessare che tutti i miei panegirici al vero, uniti a quelli di parecchi altri zelanti, le mie sferzate al falso e quelle di parecchi altri, non poterono por argine alle stravaganze, alle infiammazioni de’ cerebri, alle bestialitá fumanti credute filosofiche riforme, e che quanto al fatto della puritá litterale della nostra italiana favella, essendo sparsa sull’immensitá de’ cervelli la semina degli impostori, la quale fece credere agevolmente e quasi universalmente che il cercar di conoscerla sia un perditempo e una stitica imbecillitá, e che il non sudare ad apprenderla sia una libera virtú,