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L’azione, benchè vecchia e meccanica, corre rapida e sciolta; i personaggi, benchè notissimi e artificiosi, ci divertono con l’arguto cicaleccio e con le argute movenze; in quel mondo ingenuo, che può anche parere di cartapesta, respiriamo la poesia suggestiva delle antiche favole, e ridiamo e ci commoviamo ingenuamente. Noi scorgiamo benissimo i fili che reggono tutta la creazione, ma non possiamo fare a meno di ringraziare il bravo mago, Carlo Goldoni. Mai, come leggendo il Buon compatriotto, avviene di ripensare a quello che l’autore scrive nelle Memorie della propria facilità: "Il faut dire aussi que le tems, l’expérience et l’habitude m’avoient tellement familiarisé avec l’art de la Comédie, que, les sujets imaginés et les caractéres choisis, le reste n’étoit plus pour moi qu’une routine» (P. II, ch. 41).

Fin dalla prima scena Traccagnino ci sorge vivo davanti, dal semplice abbozzo del dialogo: lo zanni a noi familiarissimo del seicento e del settecento, con qualche nuovo ritocco goldoniano. E il suo carattere (perchè è qui un vero e proprio carattere popolare) si mantiene costante e ridicolo sino alla fine. La servetta Rosina, la finta contessa di Buffalora, che va in cerca del solito amante infedele, come ai tempi della Donna di garbo, è pure una vecchia conoscenza, che ritrova nel burchiello da Padova a Venezia l’occasione d’esercitare le sue arti femminili. E anche il buon Pantalone, meglio che nella Figlia obbediente, ci mostra qui il buon cuore paterno nella sua sincera eloquenza. Ridolfo, il seduttore stereotipato, porta il turbamento nell’animo d’Isabella e prepara bene l’ultima scena, comicissima, del secondo atto. Siamo, è vero, in pieno teatro dell’arte, ma in cotesta scena non manca la psicologia, checchè si dica, sotto il malizioso umorismo dell’autore: umorismo che si ripete al termine della commedia, nell’improvviso rivolgimento dei due promessi sposi e nello stupore muto di Pantalone e del Dottore.

Ma c’è di meglio in questo lavoro negletto, se non proprio disprezzato, dal suo autore. Nel febbraio del 1907 Edgardo Maddalena presentò al pubblico italiano di Vienna e di Trieste, nel bel discorso su Carlo Goldoni, la signora Costanza Toffolotti «vedova civile veneziana e affittacamere, personaggio del Buon comp.» con le seguenti parole: «Conosceremo così una delle tante figure e figurine goldoniane che sfidano il tempo, e non vivono nelle commedie più note soltanto». E riferì in parte il dialogo di Costanza con Isabella nella sc. 5 del primo atto e nella sc. 16 dell’alto terzo, felicemente concludendo: * C’è bisogno di analizzare la figura? Mostrar le ragioni ond’e vivo ancora un personaggio dimenticato d’una commedia, cui il suo stesso autore certo non attribuì mai valore alcuno, come il prodigo che spende e non s’accorge? — Non cerchiamo in Costanza nè la passione, nè il sentimento. Mancano come in tante figure di donna del Goldoni. Non peccava la sua arte: la società che ritraeva. In Costanza è prima ardente il desiderio di collocarsi, diviso da tutte le vedove e fanciulle del teatro goldoniano; poi vivissimo invece il dispetto d’essere stata — lei risoluta e scaltra — zimbello altrui» (C. G., nel secondo centenario della sua nascita, Trieste, 1908, pp. 19-21).

Pur troppo soltanto l’episodio di Costanza trovò grazia presto Attilio Momigliano, critico sagacissimo dell’arte goldoniana. «Il tema di questa commedia» egli scrisse poco fa «è un garbuglio di amori in parte chiastico, frequentissimo nei canovacci: questa volta il Goldoni non sa introdurvi la lim-