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352 ATTO TERZO
Si paga troppo cara a questi bottegai;

E poi non ho denari, e non ne porto mai.
Jacobbe. Dunque, signor maestro, filosofo da bene,
A ber per le botteghe senza denar si viene?
Panich. Ma tu che qualche cosa sai di filosofia,
Puoi approvar nel mondo una cotal pazzia?
Nati siam tutti eguali, quel ch’è nel mondo, è nostro,
E dir non si dovrebbe: questo è mio, questo è vostro.
Se l’uomo dell’altro uomo si serve ed abbisogna,
Pretender pagamento mi sembra una vergogna.
Io vengo da costui a ber senza denari;
Quando ha le scarpe rotte, le acconcio, e siam del pari.
Gioacchino. Non so di tante scarpe; mi viene uno scellino.
Vi pagherò ancor io, maestro ciabattino.
Panich. A me?
Jacobbe.   Taci; ha ragione, e la ragione è vaga:
Fra gli uomini di vaglia la roba non si paga.
Si cambia. Avrò bisogno di scarpe immantinente:
Panich farà ch’io le abbia, e le averò per niente.
(a Qioacchino)
Panich. Adagio; se le scarpe ti do, che mi darai?
Jacobbe. Nulla, poichè mestiero non fo, come tu fai.
Panich. Se tu non fai mestiero, io faccio qualche cosa.
Non cambio le mie scarpe con una mano oziosa.
Jacobbe. Con voi, per ragion pari, non cambierà Gioacchino
Il prezzo di un Perù con quel di uno scellino..
Panich. Non sai quel che tu dica; voglio le scarpe mie.
Gioacchino. Pagatemi.
Panich.   Coteste si chiaman tirannie.
Voler che paghi a forza un uom senza monete,
O pur contro natura abbia a morir di sete?
Jacobbe. È ver, saziar la sete esige la natura;
Ma quando non si spende, si bee dell’acqua pura.
Panich. Non sai quel che tu dica. Vo’ le mie scarpe. Intendi?
(a Gioacchino)