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472 ATTO SECONDO

SCENA XI.

La Contessa Rosaura che osserva, e detti.

Pantalone. Son contentissimo.

Ottavio. Saremo buoni amici?

Pantalone. Seguro.

Ottavio. Vi lagnerete più di me?

Pantalone. No ghe sarà pericolo.

Rosaura. (Mio padre e mio marito sono pacificati. Parlano amichevolmente fra loro. Lodato il cielo). (da sè)

Pantalone. No vedo l’ora che vegna a casa mia fia.

Ottavio. Quando verrà, la consolerete.

Rosaura. Eccomi, eccomi. Consolatemi, per carità.

Pantalone. Fia mia, vegnì qua. (s’alza)

Ottavio. (Mi si leverà dagli occhi). (da sè)

Rosaura. Via, che avete a dirmi? Marito mio, siete voi di buona voglia?

Ottavio. Sì; non vedete? (mostra ilarità)

Rosaura. Sia ringraziato il cielo.

Pantalone. Rosaura, vu sè sempre stada una fia obbediente, una muggier rassegnada. Adesso bisogna che sta ubbidienza, sta rassegnazion, la pratiche eroicamente. Qua ghe xe vostro pare, là ghe xe vostro mario. Tutti do d’accordo i ve parla, e coll’autorità che i gh’ha sora de vu, i ve comanda, che ve contentè per qualche tempo de vegnir a Roma con mi, de lassar per qualche tempo el consorte1: (Rosaura piange) de uniformarve in questo alla volontà del cielo, e far cognosser al mondo che se una donna de garbo, che sa superar le passion. Cossa me diseu?

Ottavio. Non crediate già ch’io vi abbandoni. Vi mando con vostro padre a divertirvi in una città magnifica. Non vi lascerò mancare il vostro bisogno. Vi assegno dugento zecchini l’anno, ed eccovi la mia obbligazione. (dà la carta a Rosaura)

  1. Bett.: el Conte.