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386 | ATTO TERZO |
Dottore. E il signor Pantalone non l’ha saputo?
Lelio. Non l’ha saputo, perchè, quando giunsi, egli era al solito al suo casino alla Mira.
Dottore. Ma perchè non vi siete fatto vedere da lui? Perchè non siete andato a ritrovarlo in campagna?
Lelio. Perchè, veduto il volto della signora Rosaura, non ho più potuto staccarmi da lei.
Ottavio. Signor Lelio, voi le infilzate sempre più grosse. Sono due mesi ch’io alloggio alla locanda dell’Aquila, e solo ieri voi ci siete arrivato.
Lelio. Il mio alloggio sinora è stato lo Scudo di Francia1, e per vagheggiare più facilmente la signora Rosaura, sono venuto all’Aquila ieri sera.
Dottore. Perchè, se eravate innamorato di mia figlia, inventare la serenata e la cena in casa?
Lelio. Della serenata è vero, l’ho fatta far io.
Dottore. E della cena?
Lelio. Ho detto di aver fatto quello che avrei desiderato di fare.
Ottavio. E la mattina, che avete condotto le due sorelle alla malvagia?
Lelio. Oh via! Ho detto delle facezie, son pentito, non ne dirò mai più. Venghiamo alla conclusione. Signor Dottore, io son figlio di Pantalone de’ Bisognosi, e questo lo crederete.
Dottore. Può esser anche che non sia vero.
Lelio. Io son libero, ed ecco gli attestati della mia libertà.
Dottore. Basta che siano veri.
Lelio. Il signor Ottavio li riconosce.
Ottavio. Certamente; mi paion veri2.
Lelio. Il matrimonio fra la signora Rosaura e me è stato trattato fra voi e mio padre.
Dottore. Mi dispiace che il signor Pantalone, colla lusinga dei cinquantamila ducati, manca a me di parola.
Lelio. Vi dirò. La dote dei cinquantamila ducati è andata in