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IL PRODIGO 283


Truffaldino. Basta cussì; vago subito: co se tratta de Colombina, se no basta el gran, porterò anca el graner. Col fattor gh’ho el patto tacito de no laorar, e con ti farò un patto chiaro, chiarissimo de sfadigar dì e notte, co ti vorà. (parte)

Colombina. Ed io ho un patto fatto con me medesima, di far fare gli uomini a modo mio, anche a loro dispetto. (parte)

SCENA V.

Camera.

Clarice ed Ottavio.

Clarice. Che ne dite, fratello, di questa bellissima novità? Chi mai creduto avrebbe, che il signor Leandro avesse della passione per me?

Ottavio. La frequenza con cui veniva in casa vostra, vivente ancora mio cognato, faceva sospettare qualcheduno, ch’egli lo facesse per amor vostro.

Clarice. Io l’ho sempre creduto un amico di mio marito.

Ottavio. Cara sorella, chi pratica in una casa, dove vi sia un marito vecchio e una moglie giovine, è difficile che voglia essere più amico dell’uomo, che della donna.

Clarice. Se avessi potuto ciò immaginarmi, non l’avrei sofferto da maritata, e molto meno da vedova.

Ottavio. Perchè? non ha egli sempre trattato con civiltà?

Clarice. Sì, è vero, ma in lui ritrovo un non so che di antipatico, che mi disgusta. L’ho sofferto sinora in qualità di amico, ma non lo soffrirei come amante.

Ottavio. Non so che dire; voi altre donne avete delle stravaganze curiose. Egli è un uomo di garbo, civile, polito, di buone fortune, serve con una attenzione e con una pazienza mirabile; che diamine vorreste di più?

Clarice. Per me stimo più infinitamente il signor Momolo del signor Leandro.

Ottavio. Eppure avete fatto finora più finezze al signor Leandro che al signor Momolo.