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alla vecchia Atene. Carlo Alberto nel giro di due anni fu bersaglio di biasimi e di lodi egualmente superlative. Nello spazio di otto mesi io venni ora levato alle stelle, ora tratto alle gemonie. Quando temevasi dei tumulti popolari o le parti aveano mestieri del mio appoggio, a me ricorrevano colmandomi di carezze e di applausi: poi, cessato il bisogno o il pericolo, mi calpestavano, non per altro se non ché io era sempre accordante alle dottrine espresse ne’ miei libri e, notando i falli, antivedendo i mali, mi studiava di ripararvi. E i pretesti che si coglievano per lacerarmi erano cosi ridicoli che a chi non ne fu testimonio parrebbero incredibili (0. Parlo del mondo politico, non dell’altro, ché la popolazione di Torino mi serbò l’affetto suo sino all’ultimo, e me ne diede prove sin quando era giá incominciato il mio nuovo esilio. Mi è dolce il farne espressa testimonianza in queste carte, si a lode del vero e a contrassegno di riconoscenza, come perché desidero si sappia che se

(i) Per ricreazione di chi legge eccone alcuni esempi. Avendo in un mio discorso, con allusione a una frase nota del Foscolo, toccato del «volgo censito ed illustre» ( Operette politiche , t. il, p. l68), un gentiluomo andò spacciandomi nei crocchi per comunista. Alcune mie osservazioni sugli applausi parlamentari furono cosi travisate e fecero tanto romore che io dovetti giustificarmi, ed è curioso a notare che il giornale, il quale pubblicò la mia giustificazione {Il Risorgimento, 27 ottobre 1848), un anno dopo rincappellava l’accusa e diceva che io «aveva confessato di aver torto» ( ibid ., 6 agosto 1849). Tanto è difficile ai giornalisti l’aver buona memoria. Scrivendo a un democratico poco accetto ai conservatori, io chiamai «mio caro». Il misfatto parve si enorme che se ne parlò per piú mesi ; e io era giá in Parigi che il Risorgimento ne facea tuttavia gli stupori. Udendo tali critiche, io benedissi mille volte il fondatore del Carroccio (intendi il giornale e non il carro), cioè Pierdionigi Pinelli, che mi avea procacciata una certa dimestichezza col prefato democratico e con altri assai vivi. Imperocché, se l’avessi trattato, come dianzi, in cerimonia, mi sarei soscritto «devotissimo servitore», e i conservatori mi avrebbero convenuto come ligio e schiavo dei democratici ; il che è assai peggio che essere loro amico. Né mi sarebbe giovato lo scusarmi coll’avvertenza del Casa, che di tali forinole «non si dee avere quella sottile considerazione che si ha delle altre parole, né con quel rigore intenderle, perché hanno perduto il loro vigore, e guasta come il ferro la tempera loro per lo continuo adoperarle che noi facciamo» {Gal., 60), giacché i testi del Galateo non possono esser noti a chi vive nel secolo di Abele. Ricordo queste semplicitá per sollazzo, ma giovano anco all’ instruzione, ché i costumi spiccano assai meglio nelle cose piccole che nelle grandi. Gli stranieri ne dedurranno che non è facile il vivere in Torino a chi è nato dopo il diluvio. E i conservatori, meditandole e facendone profitto, potranno ovviare che i geografi non confondano il Piemonte colla Beozia.