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per tutta Italia, la causa dell’ indipendenza giá rovinata in Lombardia perirebbe eziandio nelle altre provincie, Venezia sarebbe costretta a cedere, coll’autonomia verrebbero meno gli ordini liberi della penisola; e fra il servaggio di tutti che fiducia avrebbe il Piemonte di conservare i suoi lungamente? Tutte le speranze del Risorgimento italiano e le promesse del nostro programma tornerebbero vane, e noi saremmo costretti o a fallire la parola data o a lasciare che altri ci sottentrasse in una condizione disperata e senza rimedio.

Ma il rimedio c’era e l’avevamo assai prima accennato nel programma medesimo. «I vari Stati italiani sono legati fra loro coi nodi piú intimi e soavi di fratellanza, poiché compongono una sola nazione ed abitano una sola patria. Se pertanto nasce in alcuno di essi qualche dissenso tra provincia e provincia o tra il principe ed il popolo, a chi meglio sta il profferirsi come pacificatore che agli altri Stati italici? Siamo grati alle potenze esterne se anch’esse conferiscono l’opera loro; ma facciamo che il loro zelo non accusi la nostra oscitanza. Quanto piú i vari domini italiani saranno gelosi custodi e osservatori della comune indipendenza, tanto meno comporteranno che altri l’offenda; e se l’uno o l’altro avrá bisogno di amichevoli servigi, fará si che a conseguirli con vicenda fraterna non abbia d’uopo di cercarli di lá dai monti»1. Queste parole esprimevano il giure della nazionalitá italica e della egemonia sarda, onde nasceva al Piemonte non solo il debito ma il diritto di pacificare la patria comune. Avevamo tentati a tal effetto tutti i modi conciliativi: promesso il «concorso» alla Dieta federale, l’«aspettativa» alla politica; ma invano. Quando questa diventò repubblica e che i mali temuti come probabili si affacciavano come certi, l’attendere non era piú opportuno ma bisognava operare. Perciò ad alcuni delegati della parte democratica, che vennero a sollecitarmi, non parlai condizionalmente come avea fatto nella Dichiarazione, ma risoluto, dicendo che, «ministro del re di



  1. Operette politiche, t. ii, pp. 307, 305.