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saranno di nuovo i curati della cittá santa, e nella maestá del sommo sacerdote risplenderá la modestia dell’apostolo pescatore. Il secondo non sará tentato dalla vecchia ambizione di signoreggiare colle armi e colle conquiste anzi che cogli esempi e cogl’ influssi virtuosi, e il primato morale e civile della nuova Italia succederá come scopo ideale al guerriero e politico dell’antica. La Dieta italica, quasi concistoro di laici, avrá luogo ai fianchi dell’ecclesiastica; e il risedio di tali due assemblee, uniche al mondo, sará insieme fòro e santuario, cittá ed oracolo, vincolo di pace, modello di giustizia, principio di virtú e fomite d’ incivilimento.

...Il la inclyta Roma

imperium terris, animos aequabit Olympo

felix prole virimi (>).

Né si dica che tutto ciò è utopia, perché se bene il fatto non adegui mai la perfezione ideale, può tuttavia accostarsele, e se le accosta quando il corso irrepugnabile delle cose agevola e necessita tale indirizzo. L’assetto sodo e pieno della nazionalitá e libertá non sará il compito di una o due generazioni, e molte ce ne vorranno prima che i prelati depongano ogni speranza di rifarsi e si rassegnino a mutar vita. Ma siccome ogni mutazione fa la pratica e la pratica produce l’abito, cosi questo tosto o tardi corrobora la mutazione. Nella nuova Roma la cittá ieratica sará però lenta a formarsi, come effetto anzi che cagione del Rinnovamento, distinguendosi in questo dai privilegi della civile. La quale, come vedremo nell’infrascritto capitolo, dovrá avere una parte effettiva nell’ inviare le patrie sorti, troppo ripugnando che l’Italia rinasca senza l’opera e l’insegna di Roma.

(i) Viro., Aen., vi, 782, 783, 785.