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farsele benevole, sia colla qualitá dei membri sia coll’insegna del nuovo governo. Se io avessi eletto i miei soci fra i partigiani della mediazione, che fede avrei potuto avere, quando appunto dalla mediazione era nato il disordine? che suono avrebbero fatto tra i democratici di Genova e della bassa Italia i nomi dei conservatori e dei municipali sardi? Conveniva negoziare coi rettori di Toscana e di Roma che «popolari» si chiamavano, tórre ogni appiglio ai puritani e procacciarsi al possibile il favor dei giornali, che invocavano la Costituente illimitata e un ministero democratico anche in Piemonte. Quanto meno costoro si poteano contentare intorno al primo capo, tanto piú si doveva esser largo nel secondo, trattandosi di una parola che in quel bollore di parti e di popoli accreditava chi l’assumeva. Né il fregiarci di questo titolo era dal canto nostro tranello e lustra, come ai ministri dei 19 di agosto il prometter la lega e l’autonomia italica. Giá un anno prima io scriveva in Parigi che «il genio democratico dovea prevalere nei nostri ordini»1, cosicché il nome che assumevamo esprimeva l’idea seria di rendere popolare il principato; unico modo di provvedere alla sua salvezza non solo in quei giorni ma eziandio quando, finito il regno dei dietreggianti , la democrazia europea tornerebbe a galla e sarebbe signora del campo. Per tal modo, mentre avevamo il primo occhio al presente per mantenere gli ordini costituzionali contro i corrivi che spianavano la via al ricorso, volgevamo il secondo all’avvenire, abilitando la monarchia rappresentativa a vincere i men vicini ma piú gravi pericoli e informandola cogli spiriti del popolo e della nazione.

L’elezione de’ miei colleghi non era dunque libera: dovevo sceglierli tra i democratici che aveano maggior credito presso la parte, piú nome nella Camera e che aveano con piú calore oppugnata la mediazione. Eziandio volendo, non avrei potuto far altro senza contravvenire al mio scopo e offendere gli usi



  1. Apologia , p. 434.