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carattere illiberale e municipale, vestano, per cosí dire, una nuova persona e piglino il genio e l’abito della nazionalitá italica.

Tali debbono essere le leggi moderatrici, i progressi fondamentali e i cardini motori del nostro Risorgimento. Il quale pertanto sará una rivoluzione, se questa voce si piglia nel primitivo significato di «naturale e regolare vicenda», stante che le rivoluzioni della terra non vorrebbero esser meno ordinate di quelle del cielo. Ma non avrá il procedere e gl’inconvenienti delle mutazioni scompigliate e sovvertrici; e i vari ordini della vita italiana, non che essere turbati o distrutti, verranno svolti, migliorati, accresciuti. Non sará di pericolo alla proprietá e alla famiglia, come i vecchi moti degli ussiti e degli anabattisti; non alla religione cattolica e nazionale, come i rivolgimenti della Germania, dell’Olanda, della Svizzera, dell’Inghilterra, della Scandinavia; non alla potestá regia, alla quiete, alla salute e sicurezza dei cittadini, come quello di Francia nel passato secolo. Manderá bensí in dileguo le viete reliquie del medio evo, ma preservando gli elementi moderni che ci sono frammisti e facendo non mica fascio di ogni erba, come altrove si è veduto, ma ghirlanda di ogni fiore. Noi saremo gli ultimi fra le genti civili ad abolire gli avanzi dei bassi tempi, poiché gli stessi greci, morti assai tempo innanzi, rinacquero prima, e

    e questa patria ne sia nobilitata, e sotto i suoi auspici si verifichi quel detto del Petrarca:

    Virtú contro al furore
    prenderá l’arme e fia il combatter corto,
    che l’antico valore
    negl’italici cor non è ancor morto»

    (ibid., pp. 87-89). — Questi pochi brani bastano a chiarire inesatta l’asserzione dell’egregio Farini, che preside della lega italiana dovea essere il «romano pontefice, in sentenza del Gioberti; scudo e cavaliero il re subalpino, secondo il Balbo» (Lo Stato romano dall’anno 1815 all’anno 1850, Torino, 1850, t. I, p. 101), senza che io alleghi il resto dei miei discorsi sulla casa di Savoia nella citata e nelle altre mie opere. Niuno espresse cosí chiaramente né inculcò con tanta efficacia le parti principalissime che il Piemonte e i suoi rettori erano in grado e in debito di esercitare, o esortò cosí formalmente Carlo Alberto a essere «scudo e cavaliero» d’Italia. Io non mi ricordo di alcuna pagina del Balbo che contenga un invito espresso o un’applicazione diretta di questa sorte.