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libro primo - capitolo nono 227


ammendare l’ingiuria dell’antica che l’aveva disfatta. Come i siculi per essere in mare, cosí i veneziani confinati nelle lagune «differirono» lungamente «nelle cose d’Italia a travagliarsi»1; tanto che il dialetto veneto (bellissimo di tutti dopo il toscoromano) era usato nel fòro e nei Consigli come lingua civile; e Dante si adirava che avessero l’italiano «poco piú familiare e domestico del latino», il quale era loro «pellegrino ed incognito», se pure è autentica la lettera a Guido della Polenta. Ora

    e reverente ossequio. E so che, partito poi di Roma per trasferirsi nell’alta Italia e soffermatosi nelle principali cittá dello Stato pontificio, fece molte diligenze di conciliazione e di concordia, di che i cervelli balzani ed i discorritori senza cervello gli sapevano male in quelle cittá; come giá in Roma lo Sterbini, parlando al circolo romano in risposta ad un discorso del Gioberti, aveva lasciato intendere che egli non si gratificava i popoli magnificando i principi, lo so bene che i nemici del Gioberti, ricercando poi ne’ discorsi pubblicati in quel suo viaggio le frasi che potevano significare le intenzioni che supponevano in lui ed in Carlo Alberto, videro coll’occhio dell’animo sospettoso i sinistri intendimenti, misurandoli con quel regolo con cui sogliono speculare nel campo delle intenzioni e delle coscienze» (Lo Stato romano, t. ii, pp. 207, 208). Le lodi del re di Sardegna non davano il menomo appiglio ragionevole all’accusa, poiché erano sempre accompagnate da quelle di Pio nono e di Leopoldo ne’ miei discorsi. Se io parlava di unione, questa voce non potea sinonimare sulle mie labbra con «unitá politica», avendo scritto e ragionato tante volte di confederazione e combattuto il sistema degli unitari. E invero l’idea di costoro, e prima di andare in Italia e durante il mio soggiorno, non entrò pure per un solo istante nel mio cervello come cosa effettuabile in quei tempi. Strano è poi che l’imputazione ottenesse fede in Toscana, quando poco dianzi io avea perorata la sua unione coi pontremolesi e il mio ragionamento era uscito alla luce in Firenze (Operette politiche, t. ii, pp. 75, 76). Per dissipare l’indegna voce, feci una breve e precisa professione di fede politica nel circolo fiorentino (ibid., pp. 129-132); e reiterai sottosopra la protesta medesima in Sarzana, in Genova e nella Camera sarda dei deputati. Esaminando ora quale abbia potuto esserne l’origine (oltre le dicerie a voce ed a stampa della setta retrograda e specialmente dell’Univers, diario francese gesuitico e calunnioso di proposito), io mi risolvo che concorresse a renderla credibile il procedere del Balbo e dell’Azeglio. Questi avea assai prima desto sospetti nel granduca (credo ingiustamente) d’intendersela con Carlo Alberto a danno degli altri Stati; quegli avea corroborate in apparenza tali vane paure, disdicendo la domanda della confederazione fatta da Roma e da Napoli. Cosí nacque e crebbe l’opinione di una setta di albertisti; e poiché il Balbo e l’Azeglio ne venivano considerati come i capi, era naturale che io ne fossi per lo meno creduto complice; e il mio viaggio nella bassa Italia, gli elogi ch’io dava al re piemontese parevano confermarlo. Il che tanto è vero che anche Vincenzo Salvagnoli incorse nello stesso aggravio, e fu appuntato di albertismo e di unitarismo non per altro se non perché applaudiva nella patria al re liberatore e alla guerra di redenzione.

  1. Machiavelli, Stor., i.