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libro primo - capitolo settimo 161


accorgersi che quando il male è negli uomini non giova il mutare, perché questi recano nella nuova forma i disordini dell’antica e spesso gli aggravano. Nol prova forse la Francia al dí d’oggi? Certo sotto il regno di Filippo, con tutte le sue magagne, ella era piú quieta e libera che non è ora. Il che non torna giá a biasimo degli ordini presenti, ma dimostra che se la repubblica è talvolta una condizione del vivere felice, ella sola non basta in alcun tempo a produrlo.

Non si vuol però inferire da questo che tutte le maniere di reggimento sieno pari. Per cansare ogni equivoco, bisogna circoscrivere il senso che si dá alla voce «forma» quando si usa per esprimere l’assetto del governo. Gli antichi intendevano sotto questo nome generalmente l’essenza attuata delle cose, laddove i moderni sogliono adoperarla a significare la determinazione accidentale delle medesime. Perciò, adoperandola in proposito dello Stato, essi intendono per «forma politica» non mica la sostanza ma gli accidenti del rettorato, e quindi errano ponendo in tali accidenti l’intima natura di quello. Havvi dunque una forma essenziale degli ordini politici, alla quale non si riferiscono le presenti avvertenze e che consiste nell’essere la potestá governativa non infinita ma circoscritta e bene organata, che è quanto dire nella libertá e nelle sue guarentigie. Del che altrove faremo piú speciale discorso. Per mancanza di queste parti l’essenza del governo può essere viziosa, come si vede nella costituzione di Roma imperiale, dell’antica Polonia, di alcune repubbliche del medio evo e degli Stati ecclesiastici ai nostri tempi. Ma in ogni caso l’essenza è sempre cosa generica e può attuarsi in molte e svariatissime guise, nelle quali consiste la forma specifica e accidentale. Se la forma generica è buona, buona altresí è ciascuna delle forme specifiche in cui s’incarna; ma la loro bontá è solo relativa (che è il punto) e non mai assoluta né perfetta. Perciò in teorica l’elezione è indifferente, atteso che «la societá umana ha princípi ingeniti d’imperfezione e i suoi stati sono cattivi piú o meno, ma nessuno può esser buono»1, cioè

  1. Leopardi, Epistolario, Firenze, 1849, t. ii, p. 98.
V. Gioberti, Del rinnovamento civile d'Italia - i. 11