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sta. Teodoro Dolci, l'ingenuo campagnuolo, era ben lungi dal comprendere lo scopo misterioso e solenne di quella festa, ignorava che quelle grida popolari erano il preludio di una rivoluzione. Egli si tolse il taccuino di tasca e vi segnò colla matita: Entusiasmo di popolo; grida Viva Romilli! viva Pio IX! viva l'Italia! Il poveretto, compiacendo di tal guisa ai desiderii dello zio don Dionigi, non poteva prevedere quali funeste conseguenze erano per derivargli da quelle riottose annotazioni.
La vettura del Brunetto impiegò due buone ore per condursi da porta Renza all'albergo dell'Agnello. Teodoro, stordito dal baccano e dall'insolito spettacolo della moltitudine, non udiva, non vedeva più nulla. Appena la vettura fermossi alla porta dell'albergo, il nipote di don Dionigi rotolò dalla serpa, e cascò sulla pancia dell'albergatore.
— Non ci sono più alloggi! — gridò l'oste incrollabile, — tutte le camere sono occupate da parecchi giorni.
Teodoro levossi il cappello e, ricordando i consigli dello zio, affrettossi a rispondere:
— Io sono il nipote del molto reverendo sacerdote don Dionigi Quaglia di Capizzone....
— O quaglia o pernice, qui non vi sono più camere da alloggiare forastieri, — replicò bruscamente l'albergatore. — I circostanti proruppero in una risata, e il povero campagnuolo si inchinò fino a terra.
Ma il Brunetto, cui premeva liberarsi del suo raccomandato, tirò in disparte un cameriere e gli disse all'orecchio: — Mettimi questo gaglioffo sul granaio o nella cantina, tanto ch'egli passi la notte. Ho bisogno che tu me lo levi dai piedi: perocchè io non saprei che farmi di lui in una serata come questa! —
Il cameriere fece d'occhio al padrone; questi sorrise malignamente, e volgendosi a Teodoro: — Entrate, — gli disse; poichè siete nipote di... vostro zio, cercherò di alloggiarvi alla meglio nella mia locanda. — E gli astanti a ridere di bel nuovo.
Il Brunetto levò dalla vettura un involto, lo porse al garzone, poi risalì in serpa.
— Che! tu parti, Brunetto? mi lasci qui solo... fra tanti pericoli?...