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GAZZETTA MUSI Rivista Milanese Sabato, 24 agosto. Nell’annunziare il successo della Follia a Roma al Politeama, la Gazzella Musicale fu più incontentabile di molti suoi colleglli, i quali nei frequenti applausi del pubblico trovarono ragione di credere in buona fede al successo lietissimo. Ma chi conosceva, i trionfi senza esempio riportati da quest’opera due volte a Parigi, due volte a Genova ed altrove, chi avendo in massima stima l’ingegno del maestro Ricci, che è fra i pochissimi italiani che tengono ancora in onore l’opera buffa, aspettava l’entusiasmo, non poteva certo accontentarsi delle buone accoglienze. Sono stato preceduto da molti nell’esame dei pregi di questa musica e delle cause che ne oscurarono le bellezze; non dimeno- io mi riservo a parlare di proposito del merito intrinseco quando possibilmente tutte le condizioni avverse al trionfo sieno state tolte, e la nuova opera riapparisca più sicura del fatto suo. Ogni prima rappresentazione, si sa,dia due sorta di nemici, quelli della platea e delle loggie, e quelli del palcoscenico; dei primi si trionfa a patto che non si abbia a lottare coi secondi che sono i più formidabili. Il maestro Ricci ebbe un terzo nemico, più feroce di tutti, il suo poeta che gli ricucinò un intingolo ammuffito con una indigeribile salsa di pezzetti di prosa mal rimati e mal numerati. Se il maestro Ricci non ha preso in orrore la sua Musa alla vista dei misfatti commessi dalla Musa del suo librettista, vuol dire che egli divide la fede dei nostri nonni, i quali avevano il torto di pensare che si potessse scrivere un capolavoro e mandarlo a braccetto con una scempiaggine, e il torto ancora maggiore di mettere in pratica ciò che pensavano. Oggi i maestri di musica hanno fatto progressi evidenti di raziocinio, e domandano un buon libretto, anche se non sanno scrivere quattro note di buona musica. I capilavori naturalmente sono rimasti rari, e i buoni libretti anche. Altro malanno che doveva compromettere lo spartito del Ricci fu il teatro; pensate una musica tutta fina, squisita, elegante di fattura, con un’orchestra che è uno scrigno aperto, per cui l’attenzione non potrebbe essere mai soverchia, pensatela ridotta in una enorme baracca di legno, innanzi ad un pubblico, a CALE DI MILANO 283 cui si smorza ogni tanto lo sigaro che bisogna riaccendere, che ha caldo e si fa vento, ha sete e fa stoppare le gasose, e che quando vuole raccogliersi per ascoltare si raccomanda il silenzio con un bisbiglio senza fine! L’effetto immediato di questa condizione di cose è che non si guarda se non alle figure principali, ai pezzi più spiegati, tutto il resto rimane nell’ombra, e se per poco non si afferrano subito parecchie dozzine di motivi che alla prima paiano nuovi, belli e d’effetto, l’indifferenza si fa la padrona del luogo. Pure, se non parecchie dozzine di bei pezzi, certo ve n’ha poco meno nella Follia a Roma e il pubblico ne scoprirà con meraviglia assai più d’uno, alla seconda rappresentazione, che alla prima ha mostrato di non gustare. E si avvedrà forse che l’opera contiene somme bellezze semi-nascoste dalla stessa ricchezza, che l’impasto delle voci è stupendo ef che l’orchestra si sposa alle parti cantabili come si vede in pochissime opere, nella massima parte delle quali, quando non avviene che l’una soverchi l’altra, gli è perchè l’una tira a dritta e l’altra a mancina e strepitano entrambe per proprio conto; si avvedrà infine che delle poche opere buffe apparse negli ultimi anni, questa del Ricci non è soltanto la migliore, ma che se le lascia indietro tutte un bel tratto! Ma di qu-esto, e più di proposito, un’altra volta. Il terzo guaio fu l’esecuzione; tolto Bottero di cui la critica ha tutto detto quando ne ha pronunciato il nome, e la Pernini, artista di rari meriti per la naturale dolcezza della voce e per la perizia poco comune di canto, tolta la signora Luini che interpretò con garbo la sua parte e cantò con bella voce, e il tenore Parasini, che fu abbastanza lodevole, il rimanente andò a rotoli. I cori uscirono molte volte di tono e di misura, e l’orchestra, sebbene diretta con passione, mancava di quel colorito e di quella sicurezza indispensabile per un’opera che ha tesori in orchestra da far valere. Aspetto adunque che la guarigione della signora Pernini renda possibile la seconda rappresentazione, la quale, per me e per chi ha a cuore l’arte italiana, deve essere la prima. — Più tardi andrò, diceva Filippo IV con aria imbarazzata: non posso lasciare ora Rubens; la etichetta... — Per lo contrario, rispose il favorito con un’impazienza che invano si sforzava dissimulare, per lo contrario, V. M. deve andare ora. La fanciulla è nella migliore disposizione d’animo che si possa desiderare; jeri sera, mentre essa dormiva, posi sulla sua toletta una lettera anonima nella quale le faceva sapere che Velâzquez non era suo fratello: che s’era servito di quel vile inganno per obbligarla a vivere con lui; ma che, lungi dall’amarla, era vivamente innamorato di sua moglie donna Giovanna Pacheco, di cui ha una figlia; che soltanto desidera ritenerla per modella, perchè la sua sorprendente bellezza eragli necessaria per i quadri, e che per siffatta ragione Ja nascondeva agli occhi di tutti. — E quale effetto ha prodotto su lei questa lettera? — Il più terribile; cadde in una profonda disperazione e furonvi istanti in cui la veemenza del dolore la privarono dei sensi. — Sventurata! — Ora più che mai, quindi, saranno efficaci le consolazioni e l’amore di V. M., ed è mestieri guadagnar tempo. Il Re, dubbioso, gettò un’occhiata inquieta sui due pittori, i quali, seguiti dagli scolari e dai cortigiani, continuavano la rassegna dei cavalletti. — L’ho appena vista in quest’istante, continuò il favorito con una calma che non aveva sino allora usata, e che lasciava chiaramente intravedere la ferma speranza che le sue ultime parole facessero il colpo decisivo sull’animo del Re. — E come sta, come sta? chiese questo ansiosamente. — La sua vita si spegno per la forza del dolore, e credo fermamente, che, se V. M. prolunga di un’ora codesta visita, la perdiamo per sempre. — Andiamo, disse il Re, ne’ cui grandi occhi apparve un segno di forte dolore; andiamo all’istante. Sulle labbra del favorito comparve un sorriso di trionfo, e aprendo adagio adagio la porticina da cui era appena venuto, Acomparve col Re, senza che alcuno si accorgesse della loro partenza. XIII. LO SCHIAVO. Rubens, finalmente, finì di girare i cavalletti, correggendo in essi qualche difetto più o meno leggiero, e dando incoraggiamenti e lodi a tutti i giovani secondo il loro merito. Ciò fatto, diresse agli scolari, in generale, alcune parole serie e affettuose, esortandoli al lavoro e alla perseveranza; poscia fermossi innanzi a un grande cavalletto su cui stava uno stupendo ritratto della Regina Isabella di Borbone. Nel vedere quella pittura, il grande artista ammutolì, e non fece altro che congiungere le mani con un’espressione assai viva di ammirazione appassionata e grandissima. — Ho visto nulla che possa paragonarsi a questa pittura, disse alfine dirigendosi a Velâzquez, e indicando il ritratto della Regina; le parole, don Diego, non bastano a esprimere quello che io sento! E l’ambasciatore gettò le braccia al cotto del pittore di camera. Indi tornò a guardare il ritratto con avida attenzione, come se quella pittura avesse magnetizzato il suo sguardo. — Non concederete a me lo stesso onore che hanno avuto questi giovani? disse Velâzquez presentando all’ambasciatore la tavolozza ed il pennello. — Dio mi guardi dal toccare un’opera tanto divina! rispose Rubens, staccandosi del cavalletto rispettosamente; tuttavia, aggiunse, amo farne un leggiero bozzetto per mia memoria, senza che per questo abbia a rinunciare a vedere poscia tutte le pitture vostre che indicherete. In cosi dire si abbassò a prendere una tela rotolata, che era a terra vicino a lui, e la collocò sul cavalletto che Velâzquez gli avvicinava; la tela era quella, che, secondo ciò che aveva detto uno degli scolari. era stata presa dal ripostiglio del mulatto Giovanni de Pareja. Ma appena fu spiegata, un acuto grido fuggì dal petto di Rubens, che rimase, guardandola, come pietrificato. Giammai eransi presentati a sguardi umani un’opera più per