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184 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO questo artista scapigliato e della sua pretesa musica, lieto di poter sentenziare senza quasi ascoltare, si fece sordo alle bellezze di prim’ordine che abbondano nell’opera e non volle distinguere che le arditezze, per gridare all’eresia. L’opera di Berlioz non è molto fedele a quella di Goethe; la musa del poeta prese ciò che meglio convenne alla musa del compositore, aggiunse, immaginò, cucì il tutto insieme non senza grazia e con molto calore. Di quest’opera, ignota ancora oggi in gran parte agli stessi connazionali dell’autore, l’Italia non ha alcuna idea. Ascoltiamo adunque il signor Jullien nell’esposizione che egli ne fa: «Nella prima parte Faust erra in mezzo alle pianure d’Ungheria (b, cantando un inno alla primavera, che rinasce, al sole che si leva, in una melodia deliziosa accompagnata da un soave mormorio d’orchestra, dolce concerto della natura che si sveglia. «Segue un magnifico quadro sinfonico. Mille rumori agresti arrivano alle nostre orecchie, fino a che irrompe franca ed allegra una ronda di contadini. Questa allegria strappa al disgraziato un sospiro, che si esala in una frase melanconica. Infine passano da lungi le truppe che fanno udire una marcia guerriera. «. Nella seconda parte Faust è nel suo laboratorio, avido di sapere e stanco’di vivere; sta per avvelenarsi, quando ode il canto della festa di Pasqua. «Risuonate ancora, cantici del cielo, sciama lo scettico gettando il nappo mortale, le mie lagrime scorrono, la terra mi ha riconquistato!» Questa scena, fedele al testo di Goethe, è bellissima, il disinganno e l’ardore del sapiente vi sono dipinti con mano maestra. «Qui Berlioz ha agito più risolutamente che non facesse più tardi Gounod. Egli prese tali quali scena e canzone e le tradusse. Il coro dei bevitori è d’una foga irresistibile; poi, cedendo alla domanda dei compagni, Brander, già barcollante, canta a gola spiegata le sue strofe pesanti del Topo. Appena la folla commossa da questa orazione funebre ha pronunziato il suo lamentevole Requiescat in pace, comincia una fuga scapigliata sulla parola Amen, scherzo musicale di Berlioz, felice di dare una buona zampata ai suoi detrattori, in gran parte difensori rabbiosi della fuga classica. E perchè lo scherzo non vada perduto: «Ascolta, ghigna Mefìstofele, tu vedrai la bestialità in tutto il suo candore.» Terminata la fuga il demonio intona la sua bizzarra canzone della pulce: qui solamente l’autore venne meno; avremmo voluto che il ritornello del diavolo fosse più stridulo e più aspro.» Nella scena terza, la melodia che il diavolo bisbiglia all’orecchio di Faust è d’una soavità penetrante. Quanto al coro dei Gnomi ed alla danza dei Silfi, sfidano ogni descrizione verbale. Faust vede Margherita in sogno e domanda qualche cosa che appartenga a quella angelica creatura; Mefìstofele lo trascina mescolandosi ai (1) Berlioz ei dice nelle sue Memorie che trasportò la scena in Ungheria per potere introdurre alla sua leggenda la propria marcia di Rakoczy, che qualche tempo prima aveva avuto esito entusiastico in Pestìi.. soldati e agli studenti che cantano la guerra e l’amore: Jam nox stellata velamina pandit; nunc bibendum et amandum est! Vita brevis fugaxque voluptas. Gaudeamus igitur, gaudeamus! Nobis subridente luna, per urbem quærentes puellas eamus! ut cras, fortunati Cæsares, dicamus: Veni, vidi, vici! Gaudeamus igitur, gaudeamus! Cade la notte; tamburi e trombe suonano la ritirata. Faust penetra nella stanza della giovinetta, saluta le pareti di quel santuario con una melodia soavissima. Margherita entra col cuore turbato e canta per distrarsi una vecchia ballata. E qui Berlioz lascia Goethe e lavora di fantasia. A un segno del demonio i folletti vengono a volteggiare alla porta di Margherita. La musica di questo minuetto è graziosissima; Mefìstofele canta beffeggiando una serenata incantevole; Faust e Margherita, soli, inebbriati, sospirano una melodia piena di voluttà e di passione. Ma il demone l’interrompe: «è ora di partire, giungono i vicini» e qui ha luogo un terzetto in cui l’amore e la gioia satanica si fondono superbamente. Nella quarta parte, Margherita è nella sua camera e piange; siede al filatoio e canta una melodia angosciosa che si raddolcisce a poco a poco nella memoria del suo amore. Si odono da lungi gli ultimi ritornelli degli studenti, l’ultimo eco della ritirata. Si fa la notte; tutto rammenta alla disgraziata il dolce ricordo di quella sera senza domani. «Egli non viene!» esclama e si lascia cadere al suolo tramortita dai rimorsi e dall’angoscia. Succede T invocazione di Faust alla natura; la conposizione orchestrale e vocale di Berlioz, traduce a meraviglia questa ardente ispirazione ai godimenti infiniti; sopraggiunge il demonio che descrive al dottore il rimorso, il dolore e la prossima morte di Margherita. Salgono entrambi in groppa a due nere cavalcature e si slanciano attraverso lo spazio. Qui Berlioz abbandona le briglie all’immaginazione; la corsa dei cavalli infernali; il sabbato delle streghe, le esclamazioni di Faust e il ghigno mefistofelico sono dipinti con uno spaventevole scatenamento delle masse orchestrali. La composizione contiene altri due pezzi grandiosi che formano uno strano contrasto: il Pandémonium e il Cielo, la fine di Faust e quella di Margherita. {Continua) RUBRICA AMÈNA Traduciamo più fedelmente che ei è possibile dal Guide Musical di Bruxelles: «Il concerto dato da Wagner nella gran sala dei Filarmonici a Vienna ha preso le proporzioni d’un avvenimento. Malgrado T enormità dei prezzi dei posti e le seduzioni — ingannatrici, è vero — del sole di primavera, di cui i primi raggi avevano eccitato i dilettanti più confidenti nella natura che nell’arte a disertare la città per la campagna, a mala pena si poteva trovare un’posto vuoto; di tal guisa si può calcolare l’introito 18,000 fiorini. Al suo entrare nella sala, il maestro (dovrebbe essere un apostolo che parla) fu salutato da uno scoppio di applausi accompagnati da una valanga di fiori; undici corone portavano in lettere d’oro i nomi delle opere di Wagner. L’eroe della festa accolse tutti questi omaggi colla maestà placida d’un sovrano che riceve i tributi dei suoi vassalli; non un muscolo del suo viso si contrasse (che muscoli!), il suo occhio penetrante