cosí ciascuno ingiú venne veloce
alla dea Venus. Benigna l’accolse
e poi a Vulcan proferse questa voce:
— Assai, marito mio, il cor mi dolse, 140quando tu fulminasti il dolce figlio
e che guastasti le su’ orate polse.
Ma piú mi dolse che la barba e ’l ciglio
egli arse a te e che con tanta asprezza
nell’aer su ti pose a tal periglio. 145Or della doglia io sento gran dolcezza,
da che tra voi è la concordia posta,
la qual prego che duri con fermezza.—
Vulcan non fece a lei altra risposta
se non che con l’Amor volea la pace; 150ché la sua sposa, che gli stava a costa,
piú ’l riscaldò che ’l foco, ov’egli giace,
e, se non pel figliastro, facea forse
cosa ch’è turpe e con beltá si tace.
Per questo si partí e su ricorse 155al regno suo; e Taura sua partita
fece una seco, onde gran duol mi morse.
Però a Cupido:— Amore, ora m’aita:
tu sai che ’l colpo insino a me pervenne,
allor che Taura fu da te ferita.— 160Egli ridendo mosse le sue penne,
e fuggí via l’Amor senza leanza
ed alla piaga mia non mi sovvenne.
Venus a me:— Assai piú bella ’manza,
— disse— nel regno mio ti doneraggio.— 165Però, al conforto di tanta speranza,
la seguitai per l’aspero viaggio.