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dell’arte può sentire di che elementi l’abbia composto, ma non saprebbe nondimeno discernerli e decomporli. Questo verso sciolto del Monti ha due doti meravigliose, non concedute certamente alla rima: primamente i pensieri riescono piú disegnati in se stessi e piú proporzionati tra di loro e stanno ne’ termini convenienti al soggetto; scorrono come fiume ricco delle proprie sue acque e non aiutato da straniere sorgenti. L’ottava invece empie il concetto principale d’intarsiature, come notò Galileo nella Gerusalemme liberata, e la terzina gli strozza; onde l’una sebbene splendida e maestosa, l’altra sublime ed acuta, non colgono sempre il bello, che sta solo nella esattezza delle proporzioni. Siaci di esempio lo stesso poema, ove la rima ed il suono inelegante di «disse» e «scrisse» gli sono sorgente di bellissimi versi.
Gli occhi alzando di Ceope al sublime
monumento, dell’arte immenso affanno,
contra cui le già stanche e mute lime
del tempo vorator dente non hanno,
— Venti secoli e venti dalle cime
di quella mole a contemplar ci stanno —
sciamò l’eroe. L’udi la Fama, e disse:
— Cadrà quel masso, non quel detto. — E scrisse.
Questi all’arpa fidava il bardo austero
vaticini sdegnosi, e confondea
l’arcano canto col fragor del fiume,
che lamentoso con vermigli flutti
nunzio corre di stragi alla superba
Vindobona, e di guerra infauste e dure
primizie apporta all’atterrito sire.
Pallido intanto sull’Abnobie rupi
il sol cadendo, raccogliea d’intorno