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110 vii - viaggio sentimentale di yorick


LIII

IL MISTERO

PARIGI

E chi ha in pratica l’umano cuore può dire s’io poteva risalire sul fatto nella mia stanza: avrei tastato un freddo tono e rallentata con una nota minore la stretta d’una musica che m’aveva agitati tutti gli affetti. E però, poi ch’ebbi lasciata la mano della fanciulla, io mi rimasi soletto per alcun tempo su quella porta, a riguardare almanaccando chiunque passava; quando un oggetto venne a usurparsi egli solo tutte le mie congetture, eludendo ad un tempo ogni mio raziocinio sovr’esso.

Parlo d’una lunga persona, d’aspetto filosofico, asciutto, affilato, la quale posatamente andava e veniva per quella via, e dopo forse sessanta passi ritornava davanti all’hôtel. D’anni cinquantadue, con una cannuccia sotto l’ascella: giubba, camiciuola e brache di color cupo, un po’ benemerite per lungo servigio; ma si confacevano a quell’aria modesta d’economica propreté. Dall’atto con che si levava il cappello e s’accostava alla maggior parte delle persone che gli passavano da lato, m’accorsi ch’ei domandava la carità: onde, aspettando anch’io la mia volta, sciolsi la borsa ad apparecchiargli un paio di soldi; ripassò; ma non mi fe’ motto. Né mi s’era dilungato sei passi, ch’ei domandò la limosina a una femminella (e da lei a me, io aveva piú sembianza da poter dare): se n’era appena spedito, ed eccoti dal lato medesimo un’altra donna, a cui egli inchinandosi sporgeva tosto il cappello. In quel mezzo un vecchio gentiluomo veniva a bell’agio, e un damerino sveltissimo s’affrettava a gran passi: l’accattone li lasciò andare. Rimasimi dunque a mirarlo ed a rimirarlo per piú di mezz’ora: nel qual tempo egli girò innanzi e indietro piú volte; e m’accertai ch’ei perseverava impreteribilmente nel proprio metodo.