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324 vi - commento alla «chioma di berenice»


mente sulla tinta rosea del volto. Piacemi di riferire la traduzione de’ frammenti greci da me citati dianzi e nelle note al v. 57:

 ... Or delle Grazie
nè d’aurei raggi liberale è il crine,
siccome è il crine del divino Apollo,
allor ch’ei monta per lo sacro clivo
d’Olimpo, e piú s’infocano i cavalli
non pur del grido e de’ spumosi morsi
al comandar, o della sferza al fischio;
de’ dardi il tintinnir dentro il turcasso
aureo, capace, e pien di eterna possa
quei quattro corridori incalza, quando
del saturnio signor veggon le case,
meta di Febo. Né di foco rosse
sono le trecce delle care Grazie,
quali sotto il cimier contien Bellona
pari alla giuba delle sue poledre,
che pel di lionessa hanno e vigore.
Nè son ricciute come il crin d’Amore,
non come quel di Cintia cacciatrice
pallide, e tutte rannodate al collo.
Ma donde spesse cascano le chiome
sembran piú fosche, e sono auree le ciocche,
che sparse al vento van mutando anella
e mostrati vari ognor biondeggiamenti.
Spiran soave odor, ma non di mirra,
non delle rose di Cirene odore,
inclite rose! Ma cotal fragranza
mandano pari all’armonia, che diede
d’Orfeo la lira, allor che, al sacro capo
dalle baccanti di Bistonia infissa,
venne nell’alto Egeo, spinta dai monti,
e un’armonia suonò tutto quel mare,
e l’isole l’udiano e il continente,
sebben né vate mai né arguta corda
di Lidia cantatrice a quel fatale
suono die’ legge e nome....

Quantunque questa poesia non abbia i caratteri della nobile semplicitá omerica, e senta, al mio parere, la raffinatezza de’ poeti latini, veggonsi nondimeno «disiecti membra poëtae» ed un ardire felice. Ecco dove si dipinge Giove, che scende ai convito apprestato da Venere in Tempe: