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322 | vi - commento alla «chioma di berenice» |
Forma placet, niveusque color, flavique capilli,
quique aderat nulla factus ab arte decor.
Delle parrucche bionde parlano Marziale e molti de’ moderni. Ovidio allude a’ crin biondi, di cui faceano traffico i compratori degli schiavi germani (Amor., i, elegia xiv, 45), quando l’amica del poeta perdé le chiome:
Nunc tibi captivos mittet Germania crines.
Del vario modo di comporre le chiome, vedi Ezechiele Spanhemio Observationes in Callim., a Inno a Cerere, v. 5. Claudiano nell’Epitalamio dí Onorio, v. 49, descrive l’antico uso delle acconciature. Parimenti Apollonio (lib. iii, v. 45), parlando di Venere:
Per le candide spalle abbandonando
in due liste le chiome, con dorato,
onde poi rintrecciarle in lunghe anella,
pettine le scevrava.
Alcuni degli imperadori si compiaceano de’ loro fulvi e biondi capelli, non imitando Augusto, che, sebbene li avesse di questo colore e mollemente ritorti, li trascurava, tosandosi troppo sovente (Svet., cap. 29). Non cosí Nerone (Svet., 51), né Ottone (Tacito, Stor., lib. i); ed il primo cantò in certi versi mentovati da Plinio (lib. xxxvii, cap. 3) i capelli di Poppea, chiamandoli «succinos», colore tra il nero e l’aureo, di cui parla distesamente l’autore citato. Lucio Vero, se s’ha a credere a Giulio Capitolino, «dicitur sane tantam habuisse curam flaventíum capillorum, ut capiti auri ramenta respergeret, quo magis coma illuminata flavesceret». Similmente di lui Elio Lampridio: «fuit capillo semper fucato, et auri ramentis illuminato». Né sia di meraviglia che le donne belle e
- ↑ * Porcjo Catone, nel libro dell’Origini; e il resto va corretto cosí: «Mulieres nostrae capillum flavo cinere ungitabant, ut rulilus esset crinis». *