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viii - istruzioni politico-morali 57


e diffondono sulla parte piú florida della societá il veleno dell’infermitá e del vizio, di modo che sembrerebbe a Tacito, il quale, interpretando tutto sinistramente, rade volte s’inganna, che «i magistrati tengono mano alla violazione de’ loro decreti in questo proposito, dividendo o le lascivie o il guadagno di quelle ree femmine».

II

E perché non si vuol dai legislatori anatomizzare le facoltá morali dell’uomo, per renderlo meno infelice? In mezzo a tal cloaca di vizi che ammorbano la repubblica, non sarebbe poco se le fanciulle di povera condizione (che sempre formano quasi la maggioritá), noiate de’ loro lavori domestici e d’una vita affaticata e meschina, non abbandonano le loro famiglie per lanciarsi in grembo a un dissoluto, sperando di trovar nell’ozio e ne’ commodi del libertinaggio una esistenza piú luminosa ed agiata. E, rotto il freno per la prima volta, non è poco se questo contagio non si communica a tutte le altre di questo sesso, e se non nascano de’ figli, infami per costituto e corrotti per istituzione. Quindi di questa genia saranno composte le truppe della repubblica, e i scellerati saranno i difensori della patria. Io non mi innoltro in questo argomento, perché noioso sarebbe il particolareggiare le conseguenze de’ nostri costumi, come facile il conoscerle senza di me. «Plus ibi boni mores quam alibi bonae leges valent», e questa sentenza la odo ripetere appunto da chi dovrebbe farla osservare e da chi appunto è il primo a violarla. Ma taluno mi dice: — Tu non di’ cose nuove. — E che monta? Io dico però cose tali che non si vogliono negare per santissime veritá, ma che si freme nell’idea di conoscerle appunto perché non si vogliono praticare.

Apriamo la storia. L’areopago in Atene era il piú antico e il piú integro magistrato di quella repubblica. I suoi membri, prima di esservi ammessi, doveano sottostare a un esame solenne per conoscere se nelle cariche anteriormente occupate aveano