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viii - istruzioni politico-morali 43


piccole larghezze, fatte per la maggior parte a spese del pubblico, si comperavano i voti del popolo, e, ritenendo per sé tutte le cariche d’autoritá e di profitto, addossarono tutti i pesi ai cittadini piú moderati e piú deboli. Intanto un’altra classe d’uomini, minacciando delazioni e giudizi, traeva denaro da quello e da questo; e, in caso di qualche pubblica disgrazia, i potenti, che ne avevano la colpa, pagavano de’ falsi accusatori, i quali sceglievano fra i meno colpevoli le vittime che si dovevano sacrificare al furor del popolo tradito da’ suoi governanti. S’aggiungano le divisioni fra le repubbliche greche, i vizi degli ateniesi, le adulazioni degli avari oratori, chiamati dal comico Aristofane «adorapopolo»; e si vedrá a chiare note che, dove stati non vi fossero i ricchi, principio e alimento di tutti questi disordini, Atene non sarebbe caduta, con tanta ignominia, dal colmo della sua grandezza.

Quando le ricchezze introdussero il lusso in Atene, e il desiderio di primeggiare non poteva essere saziato che con i mezzi dell’oro, gli oratori venduti a Serse e a Filippo accelerarono la rovina della loro patria. Allora non si trovava piú in Atene alcun vestigio di quella politica maschia e vigorosa, che sa ugualmente preparare i buoni successi e riparare i sinistri. Non vi restava che un orgoglio mal inteso e soggetto a svaporarsi in vani decreti; di modo che il comico Aristofane dice che gli ateniesi, divenuti ricchi, non avevano «piú nulla di guerriero fuorché la lingua». Questi non erano piú quegli ateniesi, che, minacciati da un diluvio di barbari, avevano demolite le loro case per fabbricarsi una flotta, e le di cui donne lapidarono Cicida, l’oratore che propose di rappacificarsi con la Persia per mezzo di un tributo o d’un omaggio. L’amor del riposo e del piacere, introdotto dalle opulenze, aveva pressoché spento quel della gloria e della indipendenza.