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ultime lettere di jacopo ortis 267


appassite, pare piú allegra di quel che fosse prima della tempesta. Cosí, o Lorenzo, lo sfortunato si scuote dalle funeste sue cure al solo raggio della speranza, e inganna la sua trista ventura con que’ piaceri, a’ quali era affatto insensibile in grembo alla cieca prosperitá. Frattanto il dí m’abbandona; odo la campana della sera; eccomi dunque a dar fine una volta al compimento della mia narrazione.

Noi proseguimmo il nostro breve pellegrinaggio, fino a che ci apparve biancheggiante da lungi la casetta che un tempo accoglieva

          Quel Grande, alla cui fama è angusto il mondo,
          per cui Laura ebbe in terra onor celesti.

Io mi vi sono appressato, come se andassi a prostrarmi su le sepolture de’ miei padri, e simile a que’ sacerdoti che taciti e riverenti s’aggiravano per i boschi abitati dagl’iddii. La casa di quel sacro italiano sta crollando per la irreligione di chi possiede un tanto tesoro. Il viaggiatore verrá invano da lontane terre a cercare con meraviglia divota la stanza armoniosa ancora dai canti celesti del Petrarca. Piangerá invece sopra un mucchio di ruine, coperto di ortiche e di erbe seivatiche, fra le quali la volpe solitaria avrá fatto il suo covile.

O Italia, placa l’ombre de’ tuoi grandi!... Oh! io mi sovvengo, col gemito nell’anima, delle estreme parole di Torquato Tasso. Dopo essere vissuto quarantasette anni fra i sarcasmi de’ cortigiani, le noie de’ saccenti e l’orgoglio de’ principi, or carcerato ed or vagabondo, sempre melancolico, infermo, indigente, giacque finalmente nel letto della morte, e scriveva, esalando l’eterno sospiro: «Io non mi voglio dolere della malignitá della fortuna, per non dire della ingratitudine degli uomini, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico». O mio Lorenzo, mi suonano queste parole sempre nel cuore, sempre!

Frattanto io recitava sommessamente, con l’anima tutta amore e armonia, la canzone «Chiare, fresche, dolci acque» e l’altra «Di pensier in pensier, di monte in monte», e il sonetto «Stiamo,