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lettera xlv 141


bene che non ho mai posseduto e che ho perduto senza speranza.

O angelo, tu mi hai assistito con tanto affetto nella mia breve malattia. Te ne ringrazio di cuore; te ne ringrazio.

Ho meco l’unica tua lettera, che mi scrivesti quand’io era a Padova. Felice tempo! Ma chi l’avrebbe mai detto? Io la rileggo... Solo e sacro testimonio del mio dolore e dell’amor mio, non mi abbandonerá mai, mai; nemmen nel sepolcro.

Tu frattanto accogli il Werther, l’Amalia, la Virginia e la Clarissa. Questi libri, che sono stati i compagni della nostra solitudine, t’ispireranno una dolce malinconia e ti faranno spargere nell’infelice giovane un sospiro di rimembranza. O mia Teresa! questi sono forse deliri; ma l’uomo sommamente misero sente con passione queste cose, che sfuggono a chi è felice: il cuore, quando ha bisogno di consolazione, non ne lascia perdere alcuna.

Addio: perdonami, Teresa,... perdonami.

Scrivo male e di un carattere appena intelligibile: ma ti scrivo arso dalla febbre, con l’anima lacerata, l’idee interrotte e confuse..., il pianto sugli occhi... e la mano che s’arresta a ogni linea.

Che se la mia languente salute, se le mie sventure e la mia tristezza scavassero la fossa a’ miei giovani giorni, soffri ch’io mi renda consolante la morte con la certezza che tu verserai su le mie ceneri una stilla di pianto. Finalmente io sono stato, e lo mi chiamavi l’«amico del tuo cuore»! e sono... sì!

Ah!... adesso io sento tutto il dolore a cui ti lascio! Oh! potessi morirti vicino; oh! potessi almeno morire ed essere coperto dalla terra che coprirá le tue ossa. Addio... addio!