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264 caos del triperuno


lo invidiasse, abitava. Or dunque m’accorsi quel giovenetto dover essere del paese di Matotta, lo quale, cosí polito de vestimenta e perfumato di muschio, sapeva dolcemente a l’instrumento concordare la voce; onde io tratto in quella parte celatamente, che né egli né Merlino se n’avvedesse, trapassai lo fiume di latte in quella verdura di lá e, drento uno cespuglio di rose e spine appiattatomi non troppo da lui remoto, stetti ad ascoltarlo. Lo quale, dopoi un lunghetto ricercare di quelle sonore corde, in queste rime cosí proruppe, dicendo:

LIMERNO

So ben che ’l mio lodarvi, donna altera,
quando che non vi giunga, avete a sdegno;
so ben che ’l mio avvezzato in fiumi legno
trovar porto nel vostro mar dispera.
Ma de’ vostr’occhi se quell’alma spera [Excitat ingenium miris amor artibus atque | Eximium e vili pectore vibrat opus.]
mi si scoprisse alquanto, forse al segno
uguale mi vedrei, che ’l nostro ingegno
ascende amando e piú oltra gir non spera.
Non è barchetta cosí lenta e frale,
ch’avendo voi, e vosco Amor, in poppa,
per ogni ondoso mar non spieghi l’ale.
Onde la musa mia va pegra e zoppa,
se schiva udite lei; ma se vi cale
il suo cantarvi, allor lieta galoppa.

TRIPERUNO


Tosto che finito ebbe di dire, eccovi sprovvedutamente un augelletto, o per caso o tratto dal suo concento, si ripose appresso d’un arbore sopra un ramo secco, ove, taciuto ch’ebbe Limerno, con un dirotto gemito faceva la selva intorno richiamare: di che egli, alzata la fronte a quella, cosí a l’improvviso incominciò con seco a ragionare: