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selva seconda 239


Io, dal spavento piú che mai commosso,
lungo la manca spiaggia formo e stampo
miei passi, lor frettando quant’ i’ puosso,
sin che dal suo furor mi fuggo e scampo.
Cosí infelice non piú aver riposso
giammai vi spero; e d’uno in altro campo,
qual timidetta lepre, uscendo, un fosco
antro di spine trovo e vi me ’mbosco.

Ma ne l’entrar (ah quanta mia sventura!),
ecco si mi raffronta un uomo strano,
anzi doi, sgiunti fin a la cintura:
piú mostro assai che finto non fu Giano
o Proteo falsator di sua figura;
tal anco è scritto Castor e ’l germano,
ché sol due gambe quel corporeo peso
di duo persone tengono sospeso.

Ei, quando avanti lui giunto mi vide,
scosse le membra e tutte si li ruppe.
Stupido, il guardo ch’ei digrigna e ride
e par che ’n altri volti s’avviluppe.
I’ non era né Teseo né anco Alcide
o chi nel ventre il gran Piton disruppe, [Febo.]
che fronteggiar bastassi un mostro tale;
onde spiegai pur anco al corso l’ale.

Per un sentier (sol un sentiero v’era)
sferzo me stesso, e gran téma mi punge.
Ma poi che da l’incerta e ’nstabil fiera
esser mi vidi al trar d’un arco lunge,
fermo mi volgo; ed egli, sua primera [Bis fugienti laqueus inicitur]
forma cangiando, in doi corpi si sgiunge:
questo di donna, vago, pronto, ameno;
quel d’un formoso e bianco palafreno.