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230 caos del triperuno



questo di spine una corona, quello
sopra la canna una spongia bibace;
chi un chiodo, chi una sferza, chi ’l martello,
chi l’asta, chi la fune, chi la face.
La donna, quando i vide, in atto bello
presto si leva e vereconda tace.
Quelli non men di lei onor le fanno,
poi taciti al fanciullo intorno stanno

(dorm’egli) in atto di basciarlo mille
e mille volte, né esserne satollo: [«O iugum sancti amoris, quod dulciter capis, gloriose laqueas, suaviter premis, delectanter oneras, fortiter stringis, prudenter erudis!» Bernard.]
par che nettar, ambrosia e manna stille
da gli occhi soi, dal mento, fronte e collo!
Eran le cose in modo allor tranquille,
ch’al mondo non sentivi un picciol crollo,
come se con la notte l’universo
stesse nel sonno, co’ l’infante, merso.

Ma dopo alquanto indugio, ecco ’l piccino
subitamente non so chi disturba.
Egli alza il guardo e vedesi vicino
cinger intorno la celeste turba,
ch’ognun sta penseroso e ’n terra chino,
con quelle orribil armi; onde si turba
nel volto il bel sembiante e di spavento
piange, tremando come fronda al vento.

Sí come al vento foglia, trema e piange,
né ’l viso piega mai da quella croce;
e mentre qui si dole, cruccia ed ange,
quattro angioletti in lagrimosa voce
incomenciar un inno detto il Pange; [Divi Ambrosii hymnus.]
il qual pensando, ancor m’incende e cuoce
de l’amoroso foco, il cui soggetto
spezza di fiera non che d’uom un petto.