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Giá non fu sasso in quella grotta (pensi
chi ha tener cor quel far dovea la madre!)
che non se ’ntenerisse ai forte intensi
sospir del Figlio ubediente al Padre.
Felici voi, pastor, eh’ e’ cuori accensi
d’amor sentiste, quando le leggiadre
celesti facce empièr quell ’umil tetto
ch’a Chi non cape al mondo die’ ricetto,
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diede ricetto al gran Motor del cielo,
a le primizie de l’uman salute!
Oh degna grotta, ove di carne il velo
mostrocci aver l’altissima virtute !
grotta beata in cui fiori lo stelo
di pudicizia, e nacque fra le acute
mondane spine il fior tant’anni occulto
senza che mai v’oprasse mortai culto!
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Ma quel divino Infante poi ch’alfine
gli fur sciugati gli occhi lagrimosi,
l’angel maggior ch’aveva d’oro il crine,
d’avorio il viso e gli atti generosi,
l’ale conteste d’oro e perle fine,
levasi ritto e, vólto a quei paurosi
buon pegorari, estende la man destra
ed alto il legno tien con la sinestra.
— Uom — disse — che pur se’ consorte nostro,
degli anima’ pur se’ quel non mortale,
pon’ mente al tuo peccato, orribil mostro,
per cui del ciel fiaccaronsi le scale;
donde le porte del tartareo chiostro
stan sempre aperte al carro trionfale,
nel qual sommesso e grave di catene
Pluto t’avinse, ove prigion ti tiene!
T. Folengo, Opere italiane - 11.
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