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Ruppe ’l silenzio e cominciò: — Gran tempo
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fa ch’io parlar doveva, e sempre tacqui:
se dir lo ver non mai tropp’è per tempo,
so che tacendo a tutte voi non piacqui:
or non piú vi son muta, or non piú attempo!
Io son colei c’ ho padre e mai non nacqui:
vòvi giamai aprir (eh ’amor mi morde)
molt’occhi ciechi e molte orecchie sorde.
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Voi queste verghe e rami novelletti,
onde a natura un bel poder riesce,
ornate di be’ frutti si, ma schietti
non fian s’un vepre sol tra’ fior si mesce,
perché di vivo umor son intercetti
da quel mal pruno che ’n gran selva cresce;
e questo è Falsitá, che tien ciecati
gli Aristoteli vostri, Omeri e Piati.
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Prendo a mirar talor le creature,
ma quelle piú di vostre doti altiere:
veggo molti per voi ne l’armature
gir vincitori e carchi di bandere,
altri per voi c’ han sparse le scritture
di gran dottrina e d’alto e bel sapere,
ed altri d’altri fregi per voi chiari,
ma statue senza me furon d’altari.
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Quei vostri Fabi, Scipi e quei Pompei
che d’arme pari e d’onestate andáro,
quei Socrati, Zenoni e quegli Orfei
che ’n varie openion filosofáro,
quei Trimegisti e Febi, eh ’esser dèi
(vostra mercé) le genti si pensáro,
or san che ’l suo saper fu poco e nulla
e cli’uom dal ver lontano è sogno e bulla.