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34 un nuovo poeta romanesco.


CXIII.

ER SERVITORE A SPASSO.


     A me? me pare d’avé vinto un terno
De nu’ stà più a servì quel’assassino
De l’avvocato. Na vita d’inferno
Da méttecese a letto ’gnitantino.
     Quer che m’ha fatto faticà st’inverno!
Manco m’avessi1 preso pe’ facchino.
E po’ ’n’ aria, perdio, ch’er Padreterno
Appett’a lui divent’u’  regazzino.
     Adesso?! Già ciò2 quarche cosa in vista,
Ma casomai che fussi un po’ spallata,
C’è la cariera mo der giornalista,
     Le cianche3 ce l’ho svérte, un bèr vocione,
S’ariccapézza ’na bona giornata,
E poi, si nun fuss ’ artro, la struzzione!


Qui non c’è nulla di rubacchiato al Belli, è c’è tutta l’arte sua. C’è l’unità rigorosa del componimento, il quale vi sta davanti come un piccolo

tutto, armonico e compiuto, col suo principio, il suo svolgimento, il suo fine. C’è la metà del dialogo felicemente sottintesa, poichè alle prime parole voi capite subito che un amico del servitore,

  1. M’avesse.
  2. Ci ho.
  3. Le gambe.