Pagina:Ferretti - Centoventi sonetti in dialetto romanesco.pdf/37


un nuovo poeta romanesco. 27

nella satira politica; ma per sua e nostra disgrazia, egli scrive una lingua che, per lo più, non è nè il romanesco nè l’italiano, ma un’informe mescolanza dell’uno e dell’altro, così nelle parole e nelle frasi, come nella sintassi.

È vero che il Marini ci avverte che «in questi sonetti non ha voluto seguire in tutto e per tutto la dicitura antiquata del dialetto romanesco, affinchè anche i non romani potessero più facilmente comprenderli;» ma questa toppa è peggior dello strappo. Infatti, se per dicitura egli intende quel che realmente significa, io dico che ha fatto malissimo a seguire, anche solo in parte, la dicitura antiquata, servendosi, per esempio, a tutto pasto dell’antipaticissimo suffisso pleonastico ne (mene, tene, tune, giune, quane, none, fane, riuscine, ec.), che andava già cadendo in disuso fin da’ primi tempi del Belli, il quale non l’adopra quasi mai, e che oggi potrà sentirsi, per caso, in bocca di qualche umbro o marchigiano romanizzato, ma non mai dei veri Romani de Roma. Se poi, com’è più probabile, il Marini chiama dicitura antiquata quelle forme particolari che vivono solamente tra ’l po polo, io dico che ha fatto malissimo a scartarle, perchè esse appunto dànno fisonomia e carattere speciale al dialetto, e non è lecito svisare un idioma per comodo di quelli che non l’intendono. Se non l’intendono, lo studino: non c’è altro rimedio.