Pagina:Eneide (Caro).djvu/320

[845-869] libro vi. 279

845Là dov’egli ode, essamina, condanna
E discuopre i peccati che di sopra
Son da le genti o vanamente ascosi
In vita, o non purgati anzi a la morte:
Nè pria di Radamanto esce il precetto,
850Che Tesífone è presta ad esseguirlo.
Ella con l’una man la sferza impugna,
Ne l’altra ha serpi; ed ambe intorno arrosta,
E grida e fere, e de le sue sorelle
Le mostruose ed empie schiere tutto
855Al ministerio de’ tormenti invita.
Apronsi l’essecrate orrende porte
Stridendo intanto. Tu, che quinci vedi
Che faccia è quella che di fuor le guarda,
Pensa qual a veder sia dentro un’Idra
860Ancor più fiera aprir cinquanta ingorde
Rabbiose bocche. Il Tartaro vien dopo;
Una vorago che due volte tanto
Ha di profondo, quanto in su guardando
È da la terra al cielo: e qui ne l’imo
865Suo baratro dal fulmine trafitti
Son gli antichi Titáni al ciel rubelli.
Qui vidi ambi d’Alòo gli orrendi figli,
Che scinder con le mani il cielo osaro,
E tôr lo scettro del suo regno a Giove.


[567-584]