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il tessuto e spingendolo verso l’alto. Se all’interno della casa fossero rimasti degli abitanti, dice Licha, in questo momento verrebbero irrimediabilmente espulsi. Si passa dunque da una situazione in cui la casa è abitabile e può ancora proteggere, a uno stato in cui è inabitabile, in cui si viene espulsi, consegnati agli agenti esterni.
Anche in Sans se retourner ciò che normalmente è destinato ad essere interno diventa esterno; Sans se retourner è infatti una serie fotografica tratta da un intervento dell’artista a Sarajevo: Licha fissa sull’esterno di una casa ferita e spaccata dalla guerra una tappezzeria a fiori delle più tradizionali, di quelle destinate normalmente a coprire e rendere accoglienti gli ambienti domestici più intimi e riservati. Creando una dimensione ambigua, un non più né dentro né fuori, l’artista sottolinea alcuni effetti della guerra, il sovvertimento del limite tra spazio pubblico e privato, l’aggressione dell’individuo, l’intrusione violenta nella dimensione privata, il sovvertimento di ogni aspetto della vita quotidiana, l’impossibilità di trovare riparo e protezione, di difendere una posizione personale.
“Costruire la propria casa significa creare un luogo di pace, di calma e di sicurezza a immagine del ventre materno, dove ci si può ritirare dal mondo e sentire battere il proprio cuore; significa creare un luogo dove non si rischia l’aggressione, un luogo di cui si sia l’anima. Oltrepassata la porta, assicuratisi che sia ben chiusa, è dentro di sé che si entra” scriveva Olivier Marc nell’opera già citata. Ma nel 2000 Emanuel Licha ha intrapreso il primo di una serie di viaggi nella Bosnia Erzegovina. In questa area sconvolta dall’etnonazionalismo, il paesaggio appariva e, a più di dieci anni dalla guerra, continua ad apparire, disseminato di spettri:


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