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so fare anche le scarpe. Volete che ve ne faccia un paio? O ve ne accomodi...

— Tu desideri qualche cosa, — rispose l’ometto, in napoletano. — Tu non puoi far niente.

— Siate buono, zio Serafino. Pensate all’anima immortale.

— Io penso all’anima, ma ti ho già detto che non sono tuo zio. Tu hai ammazzato tuo zio.

— Ebbene, non importa. Noi chiamiamo zio le persone importanti.

Don Serafino, però, voleva il suo titolo, che Costantino non riusciva a dargli, perchè in Sardegna appartiene solo ai nobili; e per quel giorno non si concluse nulla.

L’indomani il condannato ritornò alla carica, disse che era di famiglia nobile, che aveva studiato, che suo zio, quello della cui morte lo accusavano, dopo avergli mangiato un grosso patrimonio, lo costringeva a lavorare, a far le scarpe, rinchiudendolo in una stanzetta buia, e che una volta gli aveva scorticato interamente un piede.

E voleva farlo vedere; ma don Serafino scuoteva il capo, con segni di raccapriccio, e imprecava a bassa voce contro il morto crudele.

Così Costantino riuscì ad avere un foglio di carta, e col suo sangue e con un fuscellino scrisse le laudi per la protezione dei condannati.

L’inverno passò, e un giorno di marzo venne alla cella di Costantino una ispezione guidata da un grosso uomo che aveva due grandi occhi d’un azzurro latteo,