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Altri gruppi seguirono; le mandre si vuotarono, ma Giacobbe restò immobile, aspettando pensieroso, vicino alla siepe.

— Sì, ier sera non ho mangiato. Ho bevuto l’acquavite del padrone ed ho sognato. Ah, sì! sì! Costantino, il cane, mia sorella Annarosa. Ebbene, che egli sia dannato, perchè non torna, il piccolo rospo? — pensò scuotendosi. — Mi sono ubriacato come una bestia. L’uomo ubriaco, — pensò poi, ritornando presso la capanna, — è come una bestia; non si accorge più di nulla, dice a voce alta i suoi pensieri. Ciò è dannoso, Giacobbe Dejas, cocuzzolo spelato, mettitelo bene in mente. Ah no, no, non berrò mai più, che il Signore mi castighi.

Poco dopo ritornò il padrone: Giacobbe lo guardò fisso e sorrise. — Ah, — disse andandogli premurosamente incontro. — Tu hai una ciera da uomo bastonato. Cosa ti è accaduto, uccellino di primavera?

— Niente. Levati di lì.

Ma l'altro non l’intendeva così; e cominciò ad aggirarsi intorno a Brontu, carezzevole e saltellante come un cane, chiedendo, insistendo per sapere. E il giovane si sfogò, tanto più che ne aveva gran bisogno. Ebbene, sì, Giovanna lo aveva scacciato come si scaccia un pezzente molesto; gli aveva chiesto se non sapeva che ella aveva un figlio il quale un giorno poteva sputarle in volto dicendole: «Perchè hai due mariti?»

— Anima mia, lo sapevo! — gridò Giacobbe trasalendo di gioia.

— Che sapevi tu?