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ma, ed io ricordo di averli visti da bambino per casa, avanzi mutilati di altre generazioni.

Come poi un oggetto inghiottito dall’oceano finisce col rivestirsi di incrostazioni madreporiche, così impadronitasi di quest’egloga la fantasia popolare, passata essa da una generazione all’altra, ha naturalmente subito aggiunte, o scorciature, o altre alterazioni più o meno profonde, a seconda della memoria e del capriccio delle persone, tanto che ho potuto raccoglierne oltre a quattro versioni differenti.

Essendo quest’egloga l’unico esempio di poesia dialettale tradizionale, e forse l’ultima traccia de le sacre rappresentazioni nel nostro paese, non ho risparmiato ricerche e noie ad amici e ad egregie ed erudite persone, per raccogliere il maggior numero di varianti e poterne poi fare uno studio comparativo. L’esito pur troppo non ha corrisposto che limitatamente a le speranze. Tuttavia mi reco a fortuna di poter presentare una versione delle meno incomplete e scorrette1, interpolata in qualche punto, dove poteva farsi senza alterare il senso e la composizione, a mo’ de le antiche rapsodie.


          O Jo’ Matti’, ooo!...
O Jo’ Matti’, ooo!... (più forte)
O Jo’ Matti’, ooo! {ancora più forte)
— (svegliandosi) Che diana t’ha pijatu

  1. Questa versione, che mi è stata procurata dal carissimo cugino Carlo Astolfi, è forse di provenienza del Seminario maceratese, nel quale si è un tempo recitata.

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