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atto quinto 187

amore per sí strani successi non scema punto, ma va piú sempre crescendo.

Erasto. (Va ragionando fra se sola, fa diverse mutazioni, s’adira, s’attrista e si vergogna: segni d’affanno che la sua misera anima deve patire! Eccolo che mi sta aspettando, e se dalla vista si ponno scorgere gli effetti dell’animo, arde nel suo petto la rabbia e lo sdegno contro di me).

Cintia. Erasto, son qui per mantenervi quello che v’ho promesso.

Erasto. Che cerchi tu da me?

Cintia. Quel che sei solito darmi: crudeltá, morti, uccisioni. Io son colui che t’ho turbato, ingannato e tradito.

Erasto. Come sei diventato cosí severo accusator di te stesso?

Cintia. Su su, alle mani, non piú tardare, fammi morire, ché non potrai cosí mortalmente ferir questo corpo che non abbi piú acerbamente feritomi nell’anima.

Erasto. Tu vieni a disfidarmi molto disarmato e con molto poca arte di scrima.

Cintia. La prontezza dell’animo vincerá la poca arte dello schermire, e al corpo disarmato la disperazione ministrará l’armi, troverá nuovi usi, fará che l’unghie e i denti mi serviranno in vece di pugnali e di coltelli; e per mostrarti che ho voglia di morire, solo, nudo e senza armi m’ucciderò teco come tu vuoi.

Erasto. Sei giá disposto di ucciderti meco?

Cintia. Dispostissimo.

Erasto. Orsú, poiché sei cosí disposto di ucciderti meco, per esser noi stati tanto tempo prima amici insieme, abbracciamoci e baciamoci, e dopo ripigliamo l’armi e feriamoci.

Cintia. Mi contento d’ogni tuo contento.

Erasto. Lasciate l’armi; ecco lascio le mie.

Cintia. Io ho lasciate le mie.

Erasto, O vita assai piú cara della mia vita, come vuoi ch’io dia morte a te da cui ho ricevuto tante volte cosí graziosissima vita? O mia sposa dolcissima, il dar morte a te che