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368 la tabernaria


Pedante. Me subscribo alla vostra sentenza.

Limoforo. Maestro, mostratici la casa.

Pedante. Ecco la malefica, prestigiosa, personata e larvata taberna che parvo tempore, instantulo, si metamorfeo in casa d’un viro probo; che se fosse nell’etá degli errabondi circumvaganti cavalieri di Gallia, direi che fosse un de’ palaggi incantati di Amadis de Gaula, ove io con ludibriosa ludificazione, merente e lamentabile, ne fui expulso. Tic, toc.

Giacoco. Che buoe, capitanio, frate mio, che con tanta auterezza e sobervia e con tanti sbirri vieni a scassar le porte della casa mia, manco se fussemo dello Mandracchio o dello Chiatamone?

Capitano. Cosí m’è stato ordinato dal Regente della Vicaria.

Giacoco. Che bolete, in concrusione?

Limoforo. La figlia e la balia di costui.

Giacoco. In casa mia non c’è autro ca na vaiassella, carosa, coccevannella, cacatalluni; e se ci truovi autra perzona, voglio che de zeppa e de pésole me portate presone.

Limoforo. Capitano, entrate e fate l’offizio vostro. Non ti bisogna recalcitrare con la giustizia.

Giacoco. Ommo da bene mio, che hai a fare con la casa mia?

Pedante. Io venendo in Napoli per ospitare al Cerriglio, vostro figlio — o maximum scelus! — ha posto una maschera a questa casa e ne fece un xenodochio, dove lasciai la mia sobole con la balia; poi tornando con le reliquie delle robbe, la taberna evanisce e trovai la mia figlia sincopata.

Giacoco. Che era deventata copeta?

Pedante. Sincope de medio tollet quod epentesis auget. Dico «sincopata», ché avendola lasciata nella taberna, non ci trovai la figlia né la balia: audistine?

Giacoco. Noi poco avemo abbesogno de sse gramuffe. Ma io non t’aggio fatto accompagnare allo Cerriglio che la cercassi?

Pedante. Testor tutti i celicoli e i terricoli che non ce la trovai, et testor quel rutilante sidereo lume ch’io ne rimasi absorto e dementato.

Capitano. Padron, qui non son donne, altro che una fanciulla.