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ATTO II.
SCENA I.
Gulone parasito, solo.
Gulone. Sempre ch’odo sputar filosofia da questi savioni, odo dir che la natura è stata a noi benignissima madre. O che mai nascessero piú filosofi, e che si perdesse, in tutto, il collegio e la razza loro! perché, quando discorro fra me, trovo tutto il contrario: che la natura ci è stata capitalissima nimica nel farci del modo che ci ha fatto. A che proposito far duo occhi, due orecchie, due faccie, due mani, due piedi, duo spalle, ed una bocca, dove sta tutta l’importanza? che l’uomo vive per la bocca, e non per gli occhi né per l’orecchie. A che proposito far le budella cinquanta palmi lunghe, accioché peniamo tutto un giorno fin che il cibo si rassetti, si prepari e si smaltisca, e il gargarozzo, per lo quale sentiamo il gusto e l’esquisitezza de’ cibi saporiti, di tre diti? ch’appena mangiato un boccone, cala giú, sparisce subito, come si mangiato non l’avesti? Doveva far il gargarozzo lungo un miglio, che, calando giú per quello il cibo, durasse il diletto tutto un giorno; e le budelle far tre diti, dalla gola al buco di sotto, largo, aperto, che, subito inghiottito, uscisse fuori, e fusse l’introito uguale all’esito. A che proposito consumar tutto il corpo in gambe, in braccia e testa, e il ventre farlo picciolo? or non potea farlo come un sacco, per poter insaccar robbe assai? Che dispiacer si trova uguale a quello che di trovarsi in una tavola abondante e ben fornita di vivande e di vini eccellentissimi, poi aver un corpo picciolo e non poter divorare? ché tanta è la rabbia e la disperazione, che vorrei allora con un coltello forarmi la pancia per poterlo cavar fuori