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306 la fantesca


Essandro. Chi è tuo figlio?

Panurgo. Vieni in casa e lo saprai, ch’io non vo’ tanto prolungar il tempo che possi abbracciare e stringere la tua Cleria piú che una tanaglia.

Essandro. Il misero non crede a nulla che di ben gli sia detto.

Panurgo. Vieni, corri, vola e vedi il tutto vòlto in allegrezza.

Essandro. Rispondi a quanto ti domando, parla piú chiaramente il tutto: Cleria è fatta mia?

Panurgo. Sí.

Essandro. Gerasto m’ha perdonato?

Panurgo. Sí.

Essandro. È venuto mio zio Apollione?

Panurgo. Sí.

Essandro. Mio padre ancora?

Panurgo. Sí.

Essandro. Ad ogni cosa che ti domando: sí, sí, sí. Mi tratti da bestia, da asino.

Panurgo. Sí, sí, sí: te l’ho detto e stradetto mille volte.

Essandro. Oh, come sí orribil tempesta si è mutata in un subito in sí placida e tranquilla quiete! O felici miei pensieri, a che gloria giunti sète! O felice sole, che hai apportato il piú lieto giorno per me e ore cosí felici!

Panurgo. Dove vai, Morfeo?

Morfeo. A chiamar Essandro. Che tardi? tutti sono a tavola, si fa banchetto reale, le minestre si raffreddano e non vogliono cominciar senza te.

Essandro. Deh, perché non ho l’ali da volare, o Cleria, o mio padre, o mio zio!

Morfeo. Spettatori, la cosa è riuscita a miglior fine di quello che noi speravamo e che abbiamo saputo ordinare: bisognano alcuna volta i disordini, accioché si venghi agli ordini. E se la favola vi è piaciuta, fate segno di allegrezza.