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atto quinto 303

il vostro senno e prudenza a rimediarci. Poiché cosí è piaciuto a lui, piace ancora a noi che sia sua moglie; e credo che non abbiate a ritrarvene a dietro, essendo mò noi de Fregosi, casa cosí nobilissima, e tanto piú abbiamo sol questo nipote il qual sará erede di trentamila scudi. Egli è bello tra giovani non men bella che sia vostra figlia; e se egli ne è di foco, ella n’è di fiamma; s’egli arde per lei, ella ne è arsa e incenerita per lui; e s’egli ha dato il core, ella l’anima. Facciasi.

Gerasto. Ed io poiché non posso rimediare al mio onore altrimente, è forza che me ne contenti: io gli perdono né vo’ che muoia, non perché egli sia degno di vita — ché dovea farmela chiedere ordinariamente e non con trappole macchiarmi l’onore; — ma lo fo per non dare a te suo padre e a te suo zio cosí acerbo dolore che avereste della sua morte. Orsú, diasi Cleria ad Essandro e Ersilia a Cintio, purché ne sia contento Narticoforo: con questo patto però, che abbi tempo duo giorni ad informarmi di voi; ché se ben all’aspetto conosco che siate di buona qualitá e conosco che sia vero quanto dite, pur per non esser tassato per leggiero da parenti e amici, cerco questo spazio di tempo.

Narticoforo. Io mi contento e plus quam contento che sia Ersilia di Cintio, ché quella piú di Cleria io exoptava.

Gerasto. Io ti scioglio, Carisio caro; e ponendoti tu in mio luogo, credo che essendo onorato, come ti stimo, aresti fatto altrotanto a me. Ma chi è quello cosí contrafatto che mi avete condotto in casa?

Panurgo. È un piacevolissimo buffone che altro di danno non ara potuto fare alla casa che di alcuna cosa da mangiare. Eccoci per rimediare al tutto.

Gerasto. Orsú, perché l’inganno avea abbagliato a tutti e ci sono occorsi atti e parole in pregiudicio commune, si perdoni l’un l’altro.

Narticoforo. Cosí si facci.

Panurgo. Cosí si facci.

Gerasto. La mia casa sará commune a tutti; se ben non